martedì 26 gennaio 2010

IL CHIODO DELL'AMORE NON MOLLA MAI

Da quando sono tornato dal Kenya avrei diverse cose da scrivere ma il tempo mi è abbastanza tiranno. In questi giorni mi è stata regalata una vecchia edizione di un libro che ho letto due anni fa e che racconta la biografia di un grande alpinista di nome Angelo Ursella.
Questa edizione ha in più degli scritti di diversi amici di Ursella. Leggendoli ho trovato quello di un prete. Ve lo riporto perchè dalle parole scritte da Don Raffaello emergono dei valori insindacabili di amicizia che sono fondamentali nella mia visione dell'andare in Montagna, del legare una corda ad un'altra persona.

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IL CHIODO DELL’AMORE NON MOLLA MAI

di don Raffaello de Rocco

Il Tissi è anche un rifugio, è anche un ottimo ritrovo per allegre gite, ma è soprattutto una specola, un osservatorio.

Oltre a quelle del firmamento, dal Tissi, si possono vedere tante altre stelle di varia grandezza, che lambiscono il Civetta come satelliti.

E’ proprio da questa specola, ch’io scorsi Angelo, astro dell’Alpe. Così presto uscito dalla nostra galassia.

Aveva tentato un pezzo della “Su Alto” in quell’agosto ’68, solo per allenarsi, e mi colpì il suo disinvolto modo di discendere, libero, saltellando qua e là come un cerbiatto.

Lo attesi alla base, e là nacque la nostra amicizia.

Era sbrindellato (la dolomite a volte taglia gli abiti come il rasoio), capelli fulvi, arruffati, sguardo assente verso l’immane parete.

Iniziò così uno scambio di cartoline, era ghiotto di panorami dolomitici. Poi lo andai a trovare a Buia e conobbi la sua famiglia.

Semplice gente friulana, cresciuta al dovere ed alla fatica, ricca di Fede e di buona volontà.

Poche le loro parole ma di una delicata ospitalità. L’essenziale per l’uomo. Una mattina trepidante per tutte le assenze di Angelo, quasi presaga di quello che sarebbe più tardi successo.

Per questo, Angelo, che aveva per la famiglia un affetto reverenziale, doveva preparare ogni volta in segreto il suo bazar di articoli d’arrampicata. Ogni suo viaggio incontro alle Dolomiti, era una fuga, una mossa tattica per passare inosservato, come se si fosse trattato di andare al bar un attimo con gli amici, per poi rientrare.

Ed erano fatiche enormi, le sue.

Smettere il lavoro al sabato e mezzodì a Monfalcone, correre a Buia, inforcare la vespa, essere a notte nelle Dolomiti per un breve riposo, arrampicare la domenica e rientrare in serata, tardi, per un’altra lunga settimana di fatica.

Un ritmo sostenuto per mesi e mesi, con qualsiasi tempo, con qualsiasi strada, anche innevata, perché già a marzo lui sentiva il richiamo delle Dolomiti, e le sue fibre percepivano precocemente la primavera.

Ci rivedemmo nell’estate ’69, in Lavaredo per caso, in Civetta per appuntamento quando con Paolo Bizzarro per la Carlesso sulla torre di Valgrande.

Occasioni, queste, che rassodarono la nostra amicizia, con lui e col suo fratello Silvio.

Nonostante le poche parole, tutte sobrie, che lui pronunciava, non era difficile scoprire in lui un anelito che la pianura friulana non poteva saziare. Un ideale al quale tendeva con costanza, donando il meglio di se stesso, non per la pubblicità (il suo infatti, allora, era un nome sconosciuto nel campo dell’alpinismo) ma per un bisogno di vincere, di superare, di superarsi. E non c’era ostacolo che gli chiudesse il cammino, basterà sfogliare questo libro (il ragazzo di Buia n.d.r.) per averne conferma.

Nel tardo autunno ’69, passò per Forno di Zoldo – lo seppi dopo da lui – era diretto all’Agnér, fece in solitaria la via Jori in ore 6. Ripassò per Zoldo al ritorno, e giunto a casa sua, si scusa di essere passato senza salutarmi. C’è qui una sua lettera del 5 novembre, una reliquia, ove narra tutta l’avventura sull’Agnér, e il lungo ritorno a notte alta per Duran-Zoldo-Valcellina, e conclude “come vede, non ho potuto fermarmi neanche per bere una birra per la fretta, e soprattutto per non tenere in pensiero i miei. Ma quando verrò a trovarla, verrò da turista, senza fretta. A presto…”.

Ed ecco che riaffiora ancora il suo animo: l’amicizia e la famiglia, due cose che lui non disgiungeva mai dalla passione per l’alpe.

Nel suo lavoro, la sua mente tesseva i piani più reconditi, per cooperare col fratello a migliorare la vita in famiglia, per incontrare spesso gli amici, per sentire, pure spesso, le crode strette tra le sue mani.

Mi diceva un giorno. “Le mie domeniche sono tutte così, viaggio e scalate, rubo anche il tempo alla messa, e la mamma ne soffre, ma Dio conosce il mo animo e son certo che è dalla parte mia”.

Non era la sua una ricerca di giustificazione, avrebbe voluto poter arrivare ovunque, ma questo non era possibile. O approfittare dei brevi spazi di tempo liberi da impegni, o sacrificare la festa restando in paese, nelle osterie, il che si sarebbe tradotto in sofferenza per lui, cuore silenzioso e grande, che cercava solo il silenzio e la maestà dei monti.

Ogni simile ama il suo simile.

Poi uno scambio di auguri a Pasqua nel ’70, quindi a maggio mi tenne per alcuni giorni l’ospedale di Feltre per un intervento, e fù là che una sera, tardi, me lo vidi arrivare in stanza. Veniva dal Rolle, non aveva scalato quel giorno, ma forse da quelle parti una ragazza aveva acceso per lui una fiamma. Parlammo di crode, di progetti per l’estate incipiente, e con un guizzo negli occhi accennò all’Eiger.

Ci salutammo contenti. E fu l’ultima volta.

Verso metà luglio, come d’accordo, lo attesi in Lavaredo, ma non lo trovai. Altri giorni attesi sue notizie, ma invano. Scadeva il 18 il suo compleanno e gli feci pervenire per posta, come strenna, il libro delle alpi. Uqel libro non lo vide, era partito per la Svizzera.

Attesi una settimana sue notizie, era quello il etmpo migliore anche per me per avvicinarmi ai monti, e per seguire con l’occhio le sue ascensioni. Poi, una lettera listata a lutto, vie da Buia. Mi colpisce il colore… penso alla mamma di Angelo, al padre, a tutti, meno che a lui.

E’ Auro che scrive, il fratello: “Don Raffaello, il nostro Angelo non c’è più… questo è il frontespizio della missiva, che continua: per noi sarà un grande conforto vederla e poter parlare del nostro Angelo…”

Da giorni non seguivo la stampa. L’avessi fatto, sarei almeno arrivato in tempo per l’ultimo saluto. Ero insomma all’oscuro di tutto, e Lui giaceva ormai a Buia, sotto una lastra di marmo, porgendo agli amici un chiodo ed un moschettone per invitarci a non desistere, a salire ancora.

Nobile creatura, quante lacrime ci è costato il commiato! Quanta tristezza ho trovato poi, nella tua casa, orbata del tuo sorriso, dei tuoi capelli arruffati, dei tuoi piccoli sotterfugi per sgusciare via, verso i monti.

Parlavi poco, ma eri la vita per i tuoi. Quanto a me, la tua mancanza mi ha impoverito. Ti cerco ancora al Tissi, parlo di Te, col Livio, con la sua sposa, vedo gli occhi di lei bagnarsi di lacrime.

Noi uomini facciamo i forti, non ci facciamo vedere a piangere, ma sentiamo che il cuore perde battiti al tuo ricordo. Preferisco guardare verso la Valgrande, verso la Carlesso, e cercarti, nell’Infinito, ove so che ti rivedrò. E a questo vecchio amico tu porgerai la corda di sicurezza e mi aiuterai per l’ultimo ‘sesto grado’, dopo il quale non ci saranno più né separazioni né lacrime, ma vita piena, di tutti noi amici, nell’oceano infinito di quell’Amore che nel Civetta e nell’Eiger pose solo un saggio della sua Forza e della sua Bellezza.

venerdì 8 gennaio 2010

KENYA

Buongiorno Mondo,
l'anno vecchio e' finito ormai... ma qualcosa ancora qui non va!
Lucio Dalla aveva davanti a se la mia sfera di cristallo quando ha composto questa canzone.
Siamo in Kenya dal giorno di Natale ma qui le cose non sono andate proprio alla grande. Quella che dovrebbe essere la stagione secca in realta' non lo e'. Tutti i giorni piove alla grande. Pioggia che ha portato morte e distruzione.
Piogge che non hanno regalato tranquillita' a noi poveri arrancatori della domenica venuti sin qua per tentare i 5000 metri e passa del monte Kenya (non raggiunto sia per meteo infame che per problemi di quota) che per i Kenyoti che stanno veramente in una situazione allarmante di nubifragio.
Mentre salivamo al nord al lago Baringo siamo dovuti rimanere fermi un giorno e mezzo per un rigagnolo in piena che aveva, poco prima del nostro arrivo, trascinato via due persone. Poco oltre un bus di 54 persone e' stato letterarlmente portato via dall'acqua e ritrovato kilometri dopo nella rift valley.
La notizia della morte di due persone mi ha lasciato letteralmente basito. Mike, la nostra guida mi ha riferito della vicenda con molta leggerezza ridendo per la situazione comica con cui sono stati trasciati via. Nessuno dei numerosi presenti sapeva nulla di loro, ne i nomi ne da dove venissero pero' tutti hanno dichiarato ridendo che erano diventati la cena di diversi coccodrilli.
In Italia cio' non sareebbe successo. Si sarebbe attivato un processo mediatico insopportabile. Ora noi viviamo in un eccesso... loro in un altro!
Dopo essere stati in giro tra parchi nazionali a farci derubare da un governo (l'ingresso ad un parco nazionale costa 70 euro al giorno!), che dopo l'elezione di Obama, pensava che gli americani avrebbero fatto del loro stato una sorta di luogo di pellegrinaggio (ma cosi' non e' stato) andremo a Monbasa. Qui probabilmente stareno appoggiati a casa di Francesco, un ragazzo italiano che dopo aver trascorso qualche anno in una missione italiana ha deciso di stabilirsi qui ed aprire una ditta d'installazione di pannelli solari. Con Francesco abbiamo salutato il vecchio anno e inaugurato quello nuovo e sono sicuro che ci aspettano giorni di divertimento.
Giusto per chiudere questo capitolo della mia vita e rientrare a lavorare!
Jambo,
Matteo