mercoledì 21 novembre 2007

IN VETTA AD OCCHI CHIUSI

Sto leggendo questo libro e ogni pagina incide nella mia mente molte emozioni.Un alpinista cieco che compie importanti salite in tutto il mondo.

Durante la salita al Kilimanjaro[...] Il cartello che segnava la vetta recitava: "Vi trovate all'Uhuru Peak, il punto più alto dell'Africa, 5895 metri" Seduto sulla vetta, con la testa piegata in avanti e appoggiata sulle ginocchia chiesi a Baltazar: "Cosa vuol dire Uhuru?" Ci pensò un istante. "Libertà" rispose.Libertà era una parola che non comprendevo. Libertà da che cosa? Libertà dai limiti del corpo? Dal dolore? dalle delusioni? Cosa significava? Volevo credere che raggiungere le vette sparse per tutto il pianeta mi potesse donare quel tipo di libertà, o almeno che mi avvicinasse ad essa ma, quando arrivavo in quei luoghi remoti, l'immensa potenza delle montagne contribuiva solo a intensificare il mio senso di fragilità, il mio umano bisogno di cibo, di ossigeno, di aiuto, di calore. Poi capii. Fu un pensiero che si formò lentamente e iniziò a prendere vita e a ricaricare il mio cervello deprivato di ossigeno. Forse era la libertà di realizzare la mia vita secondo i miei progetti, o almeno la libertà di provarci oppure di fallire nel tentativo. Forse la libertà in sé era irraggiungibile e l'obiettivo era la ricerca della libertà, con la consapevolezza che non l'avrei mai trovata.Forse la chiave consisteva nel provarci, nell'impossibilità di farcela, e nel tentare comunque di raggiungere l'impossibile, con il corpo piantato saldamente per terra, mentre lo spirito si librava alto nel cielo e arriva incredibilmente vicino all'obiettivo. [...]

nella Yosemite Valley
[...] "Cosa ha suscitato in te l'interesse per l'arrampicata?" chiese Jeff."Non lo capisci da te guardando questa faccia diabolica?" Rispose."Fama, fortuna, gloria e donne. Beh donne mica tante" [...]

Sempre dal libro che sto leggendo riporto due piccoli passi:
[...]Chris mi abbracciò e disse: "Ottimo lavoro, Erik, ma nell'ultima ora sei andato più lento della mia vecchia nonna defunta"
Malgrado la stanchezza sorrisi, perchè avevo imparato molto tmepo prima che, per un alpinista, gli insultui sono la più grande forma di rispetto e ammirazione.[...]

[...]Dal mio punto di vista, la vetta dell'Aconcagua non offriva alcuno spettacolo mozzafiato, nessuno scenario sbalorditivo con il mondo che si spalancava sotto i miei piedi. Per me, era solo un caotico mucchio di pietre con una fredda croce di metallo che si innalzava al centro. Ma una vetta è molto di più di un panorama. Sarò forse prevenuto, ma quando la gente dice che scala le montagne per il panorama non ci credo. Nessuno si sottopone a un simile calvario per un bel panorama. Una vetta non è solamente un posto su una montagna. La vetta esiste nei nostri cuori e nelle nostre menti. E' un frammento di un sogno che si avvera, la prova inconfutabile che la nostra vita ha un senso. La vetta è un simbolo, la dimostrazione che con la forza della nsotra volontà, delle nostre gambe, della nostra schiena e delle nostre mani, possiamo trasformare le nostre vite in ciò che vogliamo.[...]