martedì 28 aprile 2009

TRA SOGNO E REALTA'. VALERIO FONTANA AL PICCOLO DAIN

Leggere un libro ed innamorarsi di una via.
Leggere passo passo le emozioni dell'apritore e iniziare ad addocchiare la relazione.
Scoprire che nel frattempo qualcun'altro ha realizzato il tuo sogno.
Buttare l'idea a qualche amico sulla possibilità di compiere questa salita ma senza mai arrivare ad un dunque... finchè qualcun'altro, all'improvviso, a ciel sereno ti offre la possibilità di realizzare il tuo sogno.

L'idea di affrontare questa salita in artificiale è nata circa due anni fa con Luca quando all'attacco della Loss Pilati addocchiammo dei chiodi lungo quell'esile fessura che sale verso il cielo. Torneremo.
Qualche mese dopo nuovamente all'attacco per ritentare la Loss ma questa volta la rinuncia fu per il maltempo.
Torneremo.
Pasquetta 2009. Per la terza e finalmente ultima volta all'attacco della Loss. Il sogno di Luca era realizzato.
Intanto i chiodi della Valerio Fontana mi guardavano ancora.

Pochi giorni dopo, Luigi, al telefono mi parla della via di Ursella... gioisco ma voglio tener fede alla parola data e ai progetti ipotizzati con gli altri per il weekend. Tra una variazione e l'altra dovuta al maltempo alla fine finisco a cavalcare il mio sogno con Paolo.

Il primo tiro m'impegna a lungo. Sono 40 metri di A1/A2 ma qualche chiodo mancante e qualche appiglio usa e getta (sulla testa di Paolo per la precisione) m'impegna per circa 2 ore.
Paolo è decisamente più veloce di me, in virtù del fatto che nutre un po' più fiducia di me nei vecchi chiodi e così guida lui il mio sogno verso la realtà. Al termine delle difficoltà siamo stanchi ma contenti e qualche piccola distrazione provoca il cedimento di una lama fuori via che finisce a valle. Fortunatamente non c'è più nessuno in giro. Terminiamo la via alle 17.22 e percorrendo le ultime lunghezze di Amelie raggiungiamo facilmente il sentiero di discesa. Torniamo a valle stanchi morti. Torniamo a valle felici.

Nessuno di noi aveva una macchina fotografica. Nessuno di noi ha impresso l'esile fessura che sale verso la vetta. Nessuno di noi ha fotografato le emozioni. Come testimonianza della salita resta un vecchio chiodo di Ursella uscito nella seconda metà della via. Un chiodo particolare che non si trova di certo in commercio.

Grazie a Paolo per essermi stato compagno di questa strepitosa giornata.
Grazie a Luca (che nel frattempo saliva il Missile con Claudia) per aver accettato che affrontassi la salita con Paolo (torneremo certamente... basta solo scegliere la data).
Grazie a Claudia per averci offerto asilo notturno in quel di Trento.
Grazie ad Angelo Ursella, ragazzo di 23 anni, morto sull'Eiger per aver disegnato questa linea tanto logica quanto estetica ed elettrizzante.




VIA NUOVA AL DAIN
di Angelo Ursella – tratto dal libro Il ragazzo di Buia

29 aprile: riprendo a scrivere dopo quasi due mesi. In tutto questo tempo sono successe tante cose e la situazione è un po’ cambiata. In questo periodo ho avuto l’occasione di visitare la Val Rosandra, in compagnia di Rodolfo Simuello. Un giorno, a dir poco, drammatico! In grave crisi, arrampicando da solo, rischio il volo ad ogni innalzamento. Non mi interessa più nulla.

Faccio conoscenza col fortissimo Enzo Cozzolino. Legato alla sua corda, ho la sgradevole sorpresa di volare su un passaggio in libera.
La settimana seguente è uno sforzo continuo per ritrovare me stesso. Mi metto in contatto con Tarcisio Pedrotti per arrampicare al Dain.
19 marzo, ore sette. Sono alle Sarche in attesa degli amici di Trento. Loro saliranno verso lo zoccolo del Piccolo Dain, mentre io farò un salto a Cavedine.
Salgo verso il paese di Graziella, mentre il cuore mi batte forte. Come sarà quest’incontro?
Mi sento in preda a paura e angoscia.
Sono arrivato, suono il campanello.
Emozionatissimo, entro, lei mi sorride… è un momento meraviglioso…
Poco dopo riparto: “Ci rivedremo stasera, ciao”.
Sono sconvolto dalla gioia!
Salgo velocissimo alla base della parete, dove mi attende Tarcisio con due suoi amici: Andrea Andreotti e Marcello Rossi. Ci avviamo lungo lo zoccolo, impastato di terra e cespugli, e dopo un’ora di medie difficoltà ci troviamo alla base dello strapiombo. Lungo la parete gialla si disegna una fessura, infissi nella quale alcuni chiodi fanno bella mostra di sé. Evidentemente qualcun altro ha avuto la nostra stessa idea. Sul terrazzino d’attacco troviamo anche due bei mazzi di chiodi. Decidiamo di tentare.
Dopo una decina di metri ho raggiunto l’ultimo chiodo: ora mi attende un bel lavoro. La fessura si presenta larga e sono costretto a farmi mandare l’unico cuneo a nostra disposizione, con la corda di servizio. Non risolvo un granché: la crepa insiste nella sua eccessiva ampiezza. Metto mano allora ad alcuni chiodi lunghissimi, trovati provvidenzialmente nel mazzo scoperto all’attacco. Ora va meglio. Mi inerpico lungo il muro un po’ strapiombante e friabile, fin dove la fessura si restringe permettendo una chiodatura normale. Dopo 30 metri, attrezzo il primo punto di sosta su una placca grigia. Andrea attacca a sua volta e mi raggiunge svelto.
Sopra di noi la parete si apre gialla, friabilissima, corredata di un brutto strapiombo che nasconde alla vista il resto della via. Ha tutta l’aria di un osso duro, ma parto deciso. Lentamente mi apro la strada, un chiodo dopo l’altro. Una placca liscia interrompe il regolare decorso della fessura, che riprende 5 metri sopra. Lavoro tenacemente col martello, sulla roccia in condizioni deplorevoli. Provo a piantare un chiodo a sinistra, a destra, in alto, in basso. Niente! Unico risultato è quello di far cadere in testa ad Andrea grosse scaglie. Dopo un ennesimo tentativo, un chiodo riesce a penetrare per due centrimetri. Sotto ci sono buoni chiodi; posso tentare. Col fiato sospeso salgo in staffa. Ma la musica non cambia. Un altro chiodino ‘miracoloso’ mi gratifica di un ulteriore breve avanzamento. Un terzo ferro, momenti di delicatezza. Ecco, il passaggio chiave è risolto.
Le condizioni in cui si presenta la parete a questo punto non sono certo delle migliori, ma almeno la fessura è riguadagnata. Infiggo una serie di ancoraggi incerti nella crepa, che ora corre verso sinistra.
Il sole ha raggiunto l’orizzonte. Da sotto gli amici mi invitano a ritornare. Scendo in arrampicata fino ad Andrea. Una doppia nel vuoto e siamo all’attacco. Domani ci procureremo materiale adatto, mentre sabato e domenica porteremo a termine la salita.
Alle Sarche ci attendono alcuni amici. C’è anche lei! La accompagno a casa. Passo attimi indimenticabili in sua compagnia.
L’indomani mi ritrovo naso all’aria, con Marcello e Andrea, a studiare meticolosamente la parete. Dopo l’acquisto del materiale necessario, passo a trovare Sam (Samuele Scalet n.d.r.). Concludo la mia giornata in bellezza, assieme a Graziella. Sabato 21, ore cinque. Andrea, di cui sono ospite, mi viene a svegliare. In un attimo siamo pronti e passiamo a prendere Tarcisio e Marcello.
Alle sette e mezzo mi lego in cordata con Tarcisio e inizio l’arrampicata. Ci seguiranno tra poco Andrea e Marcello con il compito di ricuperare gli zaini. In due ore raggiungo il limite massimo dell’altro giorno. Tento ora di attraversare verso destra portandomi al centro della parete, ma la compattezza della roccia mi costringe a desistere. Continuo allora lungo la fessura, che si snoda marcata sul fondo di un diedro superficiale. La chiodatura si sgrana perfetta. Ogni tanto, come diversivo, un breve tratto in libera. Dopo ore di arrampicata ci fermiamo per bere qualcosa sopra un minuscolo terrazzino, il primo dall’attacco. Un diedro strapiombante nasconde il resto della parete. Dovrebbe costituire ormai l’ultimo ostacolo. Un chiodo dopo l’altro mi innalzo sul suo fondo, fin dove scorgo la possibilità di uscirne. Su appigli quasi inesistenti traverso a sinistra, supero un breve muro e guadagno una comoda cengia. La via è praticamente fatta.Infilo parecchi chiodi nella roccia e con una corda formo un passamano. Mi raggiungono Tarcisio e Andrea. Sono le diciannove, è quasi notte. Immerso nella penombra arriva anche Marcello, spaventato dall’idea di dover bivaccare da solo “sull’orrida parete”. All’ultimo momento però, mentre sta per attaccare la traversata, nel tentativo di rinforzarlo, provoca l’uscita dell’ultimo chiodo e si esibisce in un lungo pendolo, fortunatamente senza conseguenze. E’ notte, siamo pronti per il bivacco. Da fondo valle salgono grida di saluto. Segnali luminosi ci tengono compagnia fin quasi a mezzanotte.
Alle sei riprendiamo la scalata. Pochi metri difficoltosi e raggiungiamo le facili rocce dello spigolo che delimita la parete. L’ultima assicurazione la faccio su una grossa quercia.
Scendendo lungo il facile sentiero, incontriamo due alpinisti che stavano salendo alla nostra volta: sono i due autori del primo tentativo. Era loro intenzione dedicare la via all’amico Valerio Fontana, perito nell’estate del ’69 sulla Carlesso alla Torre Trieste. Facciamo nostro il loro pensiero e dedichiamo così la nuova via sulla sud del Dain a Valerio Fontana.
Alle Sarche ci stanno aspettando. Rivedo con emozione il volto di Graziella. Si conclude coì meravigliosamente la nostra impresa. A casa ci ritroviamo tutti e quattro per le foto di rito. Poi mi congedo dagli amici, e trascorro un magnifico pomeriggio con Graziella.
Ho passato come in un sogno questi quattro giorni. Vorrei tanto che questa felicità durasse mille anni!

venerdì 24 aprile 2009

IL SASSO ERRANTE

Il Sasso Omar ha scritto un nuovo racconto. Dato che è bellissimo (guai a chi dice il contrario) lo pubblico anche qui.

Intanto per tutti quelli che seguono le mie (nostre) avventure comunico ufficialmente che i SassBalòss andranno in spedizione a Novembre in Wadi Rum (Giordania)

Sono tra i monti. Ci sono sempre stato. Da migliaia di anni. E chissà per quanto tempo rimarrò qui: a scaldarmi al primo sole del mattino e a rabbrividire al primo freddo della sera. Mi lascerò bagnare dalla pioggia scrosciante dell’estate che mi scorre sopra veloce e che, lentamente, mi addolcisce i lineamenti e li rende meno ruvidi e spigolosi. Mi farò coprire, come sempre, dall’ultima neve di marzo, sorridendo al pensiero che di lì a poco sarò circondato da fiori e profumi che mi addolciranno il cuore, duro come pietra.
A volte sogno il mare, lontano anni luce da qui. Mi immagino sulla spiaggia a farmi accarezzare dalle onde che con il loro monotono andare e venire mi fanno addormentare. Ed i pesci che mi vengono a trovare. I bambini che mi nuotano attorno e che ridono. Le ragazze con i seni al vento e l’odore della crema solare. Mi godrò i tramonti arroventati e il volo dei gabbiani. Mi lascerò sporcare dalle alghe e perfino i granchi mi cammineranno sopra. Forse un giorno ci arriverò, chissà quando, chissà come. Attraverso un fiume ci arriverò.
Ed allora mi mancheranno i miei silenzi, mi mancherà anche il ghiaccio che mi copre ed il vento che non mi lascia dormire. Mi ricorderò degli animali al pascolo ed il suono dei loro campanacci al collo. Delle vipere che si addormentano sopra di me, al caldo del mio corpo.
Se solo fossi un poco più in alto, qualche metro. O un poco più in basso. Allora vedrei il mare, laggiù, tra quelle due montagne lontane. Ho sentito dire da qualcuno di passaggio che da lì si vede il mare.
Ma da dove sono io vedo solo nuvole, prati e cielo azzurro.
Io lo so perché vorrei andarmene da qui, da dove sono sempre stato.
Per averne nostalgia e tornare.

martedì 21 aprile 2009

UN NUOVO MATTINO

Testo di Paolo Grisa

«Riallacciare i contatti con la natura, e come amici prendersi per mano, e scoprire noi stessi, e finalmente comunicare. E percepire non solo il tipo di realtà che ci viene sottoposta quotidianamente, bensì le diverse realtà di cui è composta l'esistenza. Non è cosa difficile comprendere, osservando le mutazioni delle stagioni, come esse abbiano una similitudine con la nostra vita» (I. Guerini)

ebbene si...è davvero possibile, contro ogni previsione, trasformare un triste e grigio pomeriggio quasi autunnale di temporali vaganti su tutta la pianura e le prealpi in un frizzante e spensierato NUOVO MATTINO verticale su un meraviglioso sipario (SI, UN SIPARIO COLOR OCRA) incastonato a fianco di quella che Guerini chiamava la COSTIERA D'AVORIO...proprio qui due fessure di meravigliosa regolarità ti sparano verso l'alto in una lotta contro la gravità che si risolve sempre felicemente per chi ha la pazienza di cercare SENZA L'USO DI TRUCCHI la soluzione nascosta...
La roccia APPARENTEMENTE nemica all'inizio premia in realtà colui che andando al di là della superficie delle cose prosegue nella sua esplorazione verso l'ALTO...
MANOBONG e FESSURIANI...due lineari crepe tanto affascinanti quanto repulsive dalle quali...chi avrà la curiosità (o l'energia...) di fermarsi ad ascoltare godrà del privilegio di udire uscire dalle loro fenditure il suono rieccheggiante di un sogno (o un utopia?) che si chiamò...alla fine degli anni '70 ARRAMPICATA LIBERA ...(ma libera davvero!) e che rimase, invece, vittima di sè stesso, finchè quel "libera" (che significava in realtà molto più di quello che in seguito si sarebbe voluto far credere) si sarebbe trasformato in SPORTIVA ribaltando completamente i suoi ideali...

tentennare sulla scelta del sentiero,
seguire con lo sguardo la linea e chiedersi come sarà trovarcisi sopra,
respirare profondamente prima di compiere il primo passo verso l'alto,
espirando fuori tutte le preoccupazioni,
gioire per la scoperta di una protezione,
vergognarsi rinviando uno spit non certo frutto del "SOGNO ORIGINALE",
sorprendersi della inaspettata generosità della roccia proprio in quel punto che, da sotto, sembrava più minaccioso,
terminare una via sotto uno scroscio rinfrescante che, più che rovinare sembra voler essere partecipe anch'esso della gioia del momento...

GRAZIE A MATTEO E FEDE CHE, IN DUE DIVERSI MOMENTI, MI SONO STATI COMPAGNI DI QUESTI PICCOLI VIAGGI FUORI DAI TEMPI E FUORI DA QUEI GRADI COSI' VOLGARI NELLA LORO FREDDEZZA...VIAGGI NEI QUALI, L'ARRAMPICATA, NE è STATA SI UNA COMPONENTE, MA NON CERTO LA PIU' IMPORTANTE!


giovedì 9 aprile 2009

ABRUZZO di Paolo Sorrentino

Sono tutti morti. Anche i vivi. I cadaveri sono stati coperti con un velo e i vivi sono stati svelati. Sono cadute le pareti delle loro case e chiunque può frugare nella loro intimità. Attraverso una finestra si sbircia come voyeur, ma quando sono le mura a non esserci più, allora si smette di spiare. Si condivide. Si scorgono bagni e boiler, accappatoi, uccelli impagliati, televisori a schermo piatto, quadri, collage di fotografie di fidanzati, stampanti di computer, bottiglie di plastica. Basta solo arrampicarsi lungo le stradine del centro storico dell'Aquila. Incustodite e deserte.

Tutto è incustodito e deserto. Tutti possono vedere e fare tutto. Per poi scoprire troppo presto che non si può fare niente. Solo guardare dentro le case. Squassate in sezione, come certe vecchie case delle bambole. Come in una delle immagini più famose di "Germania anno zero". Le case dell'Aquila sono case di Barbie, ma tutte ricoperte di un sottile velo di polvere. Un'imbalsamazione degli oggetti. Che li invecchia di colpo. Mentre, poche ore fa, viveva tutto. Viveva dentro i sorrisi e dentro le parole che, in un attimo, sono state annientate. Per questo è tutto morto. Perché nessuno parla, nessuno ride, e anche i pianti sono brevi e improvvisi, a volume ridotto, appartati e composti. Sono pianti di una gente orgogliosa che, questa è l'impressione, non è abituata a piangere. Dal momento che anche il pianto sa essere una forma di spettacolo, ma lo spettacolo è un repertorio che appare del tutto estraneo alla dignità di queste persone.

I vivi non hanno più niente. Non hanno le case, ma, soprattutto, non hanno l'interno delle loro case, non possono più afferrare quella visione d'insieme fatta d'oggetti, odori, che compongono la vita e la quotidianità. Non hanno i punti di riferimento minimi che attrezzano gli individui per la sopravvivenza al dolore. Hanno solo i morti. Anche per questo sono morti. E hanno un fiume indefinito d'estranei che si aggira per la loro città. Perlopiù in divisa. E anche questi estranei, eroici e tenaci, sembrano muoversi in una sorta di lutto attivo. Ma sempre di lutto. Mentre gli abitanti, nella loro sovrumana compostezza, sembrano attraversati da una forma dolorosa ancora sconosciuta. Un lutto freddo. Che incute un rispetto assoluto. E nessuno, neanche per sbaglio, si sogna di tradire il rispetto per il loro lutto. Una famiglia piange davanti alla casa dello studente e le televisioni vincono l'irresistibile tentazione. Li lasciano in pace.



Una delle ragazze più belle viste negli ultimi dieci anni attraversa un gruppo di almeno cinquanta giovani in divisa. Nessuno commenta. Nessuno solleva uno sguardo di troppo su di lei. Ciascuno ha ritrovato il rispetto e la dignità. Nell'orgia del dolore, il mondo va come dovrebbe andare.

E poi regna la paura, perché niente è finito e tutto è solo cominciato. Tutti i pensieri, anche quelli più elementari, sono violentati dalle scosse d'assestamento. La paura e il dolore, uniti e inscindibili, formano un'unica entità. Un'entità insopportabile. Che congela questo lutto, per farsi cosa attonita, ed impressionante.

E, su tutto, il silenzio. Un silenzio nuovo e indefinibile. Interrotto, di tanto in tanto, da un elicottero lontano. Da un aereo militare.
E tutti a comporre lo stesso pensiero, ma nessuno lo comunica, perché è banale: la sensazione di un'altra, più piccola, ma simile, guerra mondiale.
A intervalli regolari, solo il rumore delle ruspe; le braccia meccaniche, oltre i tetti sfondati, raspano nelle macerie, per poi fermarsi ex abrupto. Allora i vigili del fuoco riprendono a muoversi con cautela e fatica. E l'interruzione delle ruspe porta tutti sullo stesso, ossessivo concetto: ci sono altri morti. Perché pare tramontata l'idea di trovare i vivi. Così dicono i cani. Le rare volte che si parla, si parla delle unità cinofile. I cani, sono loro che "bonificano" le zone. Sono loro che, momentaneamente, stabiliscono e qualificano, in maniera affidabile e concreta, un'idea di speranza.

Frugano in mezzo alle macerie e odorano.
I vivi a lutto frugano in mezzo alle macerie e sprofondano nuovamente nell'intimità della gente, ma più in dettaglio questa volta. Una vicinanza scandalosa. Ed escono fuori vecchie cartelle della tombola, ecocardiogrammi, borse di donne anziane, scarpe spaiate, album fotografici di una felicità che pare preistorica e i volontari della protezione civile raccolgono tutto dentro enormi buste. Con un'accortezza commovente. Perché promette una parziale restituzione alla vita, una volta trovati i legittimi proprietari. E poi spunta un crocefisso da pochi soldi, uno di quelli che sormontano brutti letti matrimoniali. Un volontario raccatta dello spago e lo attacca ad un albero. La cosa non colpisce, non smuove nessuno. È un gesto che richiederebbe pensieri e interpretazioni simboliche appena più complesse, che nessuno è in grado né ha voglia di fare.

Ancora silenzio, fantasmagorico. C'è il silenzio di certe prime teatrali, un attimo prima che si apra il sipario. Anche i molti, con lo sguardo vacuo, e l'orecchio appeso al cellulare, sono muti. Telefonano, ma sembra che non parlino. E puoi anche dubitare che ascoltino. S'intuisce solo una serie ininterrotta, feroce, di squilli senza risposta.

Le persone sono tutte mute, eppure cortesi. C'è una gentilezza silenziosa. Come dovrebbe essere il mondo, anche lontano dalle tragedie.
Le ruspe attaccano e si fermano di nuovo. Si sente solo il motore acceso di un'ambulanza in attesa di niente. Non arriverà nessuno. Neanche la delusione. L'autista spegne il motore.

Nelle strade del centro storico, adiacenti a via XX settembre, un solo, sordido rumore, è spietato e incessante. Quello dell'acqua delle tubature divelte. Piccoli rivoli che scrosciano. Per poi perire, appena ci si allontana di pochi passi. È come un lento disgelo. Ma senza il candore della neve in montagna. Qui, quello che un tempo doveva essere immacolato e prezioso, è diventato residuo. Insensato e senza possibilità d'uso.
Dopo l'ennesimo silenzio, ancora il rumore della paura. Sono le 19 e 45 di martedì sette aprile. Una scossa violentissima. Scappano tutti. Poco dopo arriva un uomo con gli occhiali e dice che è stata trovata una ragazza sotto le macerie. Viva. Anche i cani sbagliano.