mercoledì 15 febbraio 2012

ANDREA GOBETTI

Sto leggendo "l'uomo che scala" di Andrea Gobetti e credo che questi due brevi pezzi che riporto meritino attenzione. Il primo è un dialogo tra Gobetti e Manolo. Il secondo invece è una bella riflessione sulle difficoltà d'arrampicata. Forse Gobetti ci vuole riportare (fors'anche solo con la mente) ad un alpinismo romantico che via via ha lasciato il posto all'arrampicata sportiva fatta unicamente di gradi, allenamento e rivalità tra le persone.

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Manolo fa un sorriso strano, di quelli che i bambini fanno da grandi quando proprio non ce la fanno a capire un loro gioco.
- Mi spiace, Andrea, che tu non ti alleni, ti farei capire, vorrei portarti su vie più belle, su “Danza immobile” o su “Velluto grigio”, ma non ce la faresti a salire, non ti divertiresti niente, dovresti allenarti.
Rispondo automaticamente: - Non ho mai sopportato l’allenamento e poco quelli che lo fanno, tu sei un’eccezione, caro, perché eravamo ubriaconi insieme - . Detto questo, continuo in tono tollerante e filosofico: - Mi sembra che chi si allena lo faccia per essere il più bravo, e finisce per gettar via il piacere dell’assoluto per le ansie del relativo. E’ cominciato con l’allenamento e ora ci sono le gare, eravamo artisti e diventeremo tifosi.
- Tante teste tante idee, - sorride Gatto Manolo accovacciandosi nell’imbracatura. – Anche a me Bardonecchia ha fatto effetto. M’ha dato fastidio che ognuno avesse il diritto di giudicare, anche chi non aveva mai arrampicato.


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Io amavo arrampicare e quando il V°+ era la porta dell’empireo ne ero soddisfatto.
C’era una lurida vanità, non lo nego, ma nei dintorni del quinto allignano dei fenomeni di fluidità, di stato di grazia con estasi sensoriali, di soddisfazione nel riconoscimento del proprio valore che allo sperimentatore delle umane possibilità possono offrire gioia e sicurezza nonché un vasto e misterioso, quanto piacevole, campo di scoperte.
Quando la frontiera della difficoltà massima si allontanò dal quinto grado pochi rimasero fedeli al paese delle delizie e inseguendola su per la scala ‘aperta’ trovarono le frustrazioni del progresso, le corse stressanti dietro un obiettivo irraggiungibile se non per illusione, da cui Willo Welzenbach l’aveva preservata.

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