lunedì 24 maggio 2010

IL SIGARO DI CASSIN



Fra le pareti di questo pozzo, costituite dai Torrioni Magnaghi e dal Sigaro, si incide un lungo canalino verticale. Abbandoniamo qui i sacchi, ci armiamo di martello, chiodi e moschettoni, ci leghiamo con una corda di cinquanta metri, e via. Nel canalino non incontriamo particolari difficoltà e raggiungiamo la forcella dalla quale, con due o tre metri di spaccata, passiamo sul Sigaro.
Sono in testa e, mentre il compagno mi fa sicurezza, mi sposto a destra verso il nostro spigolo fermandomi in corrispondenza di una fessura. La guardo, la giudico: fa per me. La attacco direttamente, piantando tre chiodi che, oltre ad assicurarmi, mi servono per la progressione: d'appigli non c'è abbondanza e la crepa è alquanto strapiombante. Salgo così per sei o sette metri finché la magra fenditura muore sotto una piccola prominenza al cui spigolo mi afferro con entrambe le mani, spostandomi a destra. Mi protendo verso una presa, la tasto, ritorno alla posizione di prima.
“Sta' attento” avverto l'amico, anche se non c'è alcun bisogno di richiamarlo. Dato che la presa mi pare buona, mi allungo delicatamente e l'afferro con forza. Poi mi lascio penzolare sulla parete strapiombante e con mossa decisa raggiungo lo spigolo. […].
Guadagnato lo spigolo m'innalzo con minore difficoltà fino a una stretta mensola dove mi assicuro con un chiodo. Finalmente riposo: i passaggi precedenti mi sono costati non pochi sforzi.
“Vengo?” chiede Sora.
“Aspetta”.
“Come va?” soggiunge.
“La va”.
Durante la scalata le parole, come anche i movimenti, sono ridotte al minimo indispensabile: nulla di meno e nulla di più. Tutto è funzionale. […].
Riparto. Sempre restando sullo spigolo, m'innalzo fino a un secondo comodo pianerottolo, sotto un altro strapiombo. Cerco il punto in cui piantare il chiodo al quale assicurarmi, ma, per quanto osservi e tasti, non lo trovo. Riesco a piantarne uno dove la superficie pianeggiante del ballatoio fa angolo con la roccia, al di là del verticale. Il chiodo entra cantando ed è saldissimo, ma la sua posizione non è delle più indovinate. […].
Ma è tempo di riprendere l'opera. La roccia per un po' sale sporgendo, poi, dopo il labbro del piccolo strapiombo, prende la configurazione di un diedro di dimensioni ridotte, con inclinazione negativa e desolatamente compatto. Non ci sono fessure, né screpolature né buchi: nulla da fare con quella superficie unica. Eppure… provando e riprovando riesco a fissare un chiodo sull'orlo, così decidiamo di tentare la tecnica detta ‘a piramide'. Sora s'aggancia al chiodo del pianerottolo e io, attaccandomi al ferro che ho infisso sull'orlo, mi alzo con un piede appoggiato alla spalla di Sora e l'altro alla roccia. […].
Giungo così all'ultimo serio ostacolo, ma proprio non mi riesce di averne ragione. Le fatiche non indifferenti della giornata, i diversi passaggi d'ordine superiore, la poca esperienza e il rudimentale sistema d'arrampicata ci hanno stremato. Ci sentivamo sicuri di vincere e siamo costretti a desistere. Una simile realtà non ci va a genio. Rimonto sulle spalle dell'amico che sta assicurato al chiodo del ballatoio, ma… niente da fare, quest'oggi. Il Sigaro ci ricaccia.
Partita persa? Per ora si, ma la bella via deve essere nostra e lo sarà se sapremo rinnovare il tentativo. Ci caliamo con in bocca l'amaro sapore della rinuncia e un ardente desiderio di rivincita. A quando?

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