
Ecco qualche fotografia del bellissimo weekend settimanale di Sant'Ambrogio/Immacolata.
Compagno d'avventure... Raffo!
Giorni stupendi... mentre in lombardia si scatenava l'inferno!
Buona Visione
Penso che queste poche righe possano essere esportate alla vita quotidiana.
Buona riflessione.
Matteo.
Letterature e film sono i modi moderni per raccontare ciò che una volta faceva il poema epico. In letterature e film siamo disposti ad accettare qualunque fantasia, anche la più sfrenata, dal pornografico al serial-killer, dal surreale al fantascintifico, alla condizione però che l'autore metta bene in chiaro che si tratta di opera d'invenzione. Ciò che non sopportiamo èl'accostamento tra fantasia e verità, come se questa commistione fosse il peccato più grande, il verò tabù di oggi. Non siamo più gli incantati ascoltatori dell'aedo che cantava l'Odissea o l'Illiade, dove realtà e fantasia erano una sola cosa: commenti storici, chiose ed esegesi ci hanno insegnato a dividerle. Non sopportiamo chi non vive dentro di sé questa opposizione precisa, ma osanniamo Roberto Benigni che recita così magistralmente la Divina Commedia da sfondare gli indici di gradimento. Perchè tutti abbiamo ancora bisogno della favola grandiosa, dell'opera d'arte che ci nutre di serenità ma è maturata nella sofferenza dell'azione.Si, è vero. Abbiamo ancora bisogno della favola, forse della finzione. Se ci pugna attribuirla a noi stessi (ma non faremmo male), non esitiamo ad attribuirla agli altri inventando fatti e aneddoti sul loro conto, seguendo gli stessi percorsi tortuosi della leggenda ma immiserendoli con la bava viscida di calunnie consapevoli o inconsapevoli. Anche se lo si fa per scherzo, è una delle peggiori violenze, ripugnante anche per l'insita codardia. Se riusciamo in un minimo di autocritica, riguardando indietro negli anni, c'è un aspetto per cui non si tornerebbe indietro volentieri e questo riguarda le mille chiacchiere scambiate con gli amici, nella sezione del CAI, al bar, in rifugio, a volte in bivacco. Non tutto era da buttare, anzi. Ma spesso c'era chi si vantava più di altri, chi raccontava non per il piacere di farlo ma per stupire o far ridere a tutti i costi. Qualcuno era più crudele di altri. E poi c'era la vittima, sempre assente, a volte perfino deceduta: colui che, consapevole o non, pagava il conto delle risate della compagnia.Si, non si tornerebbe indietro per tali bravate verbali: e possiamo pentircene. Ciascuno di noi può guardarsi indietro e ricordarsi di episodi che non gli fanno onore. Se non se ne ricorda è un fortunato, perchè nulla può scalfire le sue certezze. Fortunato per ora, perchè a lui ancora più grave sarà l'incertezza della fine.
dal film “Ecco fatto”
(per bocca degli sceneggiatori Nicola Alvau e Andrea Garello)
Gallina che non becca, ha già beccato, perché una gallina che non becca muore. Sta tutto qui il segreto per riconoscere se la tua donna ti cornifica oppure no. Voglio dire, se una volta lei non se la sente, amen; se la volta dopo non se la sente ancora, si rosica con classe, mantenendo la calma. Ma se ti manda a spasso per terza volta, allora c’è un problema, e per capirlo ci vuole un approccio scientifico.
Se lei sorride di meno, vuol dire che è ancora fedele, se invece è allegra e spensierata, la tromba un altro. Perché le donne se non trombano s’intristiscono, come me. E io credo nella parità uomo-donna. Sul lavoro. In amore l’uomo deve comandare e la donna obbedire in teoria. Se la teoria salta, in pratica sono guai. Proprio come quello che è successo a Matteo. E allora io gli ho detto: tranquillo, tienila d’occhio, ma senza dare nell’occhio. Ci sono tre modi per tenere sotto controllo la tua donna: quello giusto, quello sbagliato e quello mio. Volete sapere com’è quello mio? Bastone e carota. Un giorno l’allisci, il giorno dopo la lessi. Così la fai star sempre sulle braci come un allenatore con la panchina bollente. Matteo sta cosa non l’ha capita, risultato: ha fatto un botto così grosso che ci hanno fatto un film. Chi lo vede poi sa come regolarsi. Perché in amore c’è un solo modo per vincere, il problema è che adesso non mi ricordo qual è.
IL CHIODO DELL’AMORE NON MOLLA MAI
di don Raffaello de Rocco
Il Tissi è anche un rifugio, è anche un ottimo ritrovo per allegre gite, ma è soprattutto una specola, un osservatorio.
Oltre a quelle del firmamento, dal Tissi, si possono vedere tante altre stelle di varia grandezza, che lambiscono il Civetta come satelliti.
E’ proprio da questa specola, ch’io scorsi Angelo, astro dell’Alpe. Così presto uscito dalla nostra galassia.
Aveva tentato un pezzo della “Su Alto” in quell’agosto ’68, solo per allenarsi, e mi colpì il suo disinvolto modo di discendere, libero, saltellando qua e là come un cerbiatto.
Lo attesi alla base, e là nacque la nostra amicizia.
Era sbrindellato (la dolomite a volte taglia gli abiti come il rasoio), capelli fulvi, arruffati, sguardo assente verso l’immane parete.
Iniziò così uno scambio di cartoline, era ghiotto di panorami dolomitici. Poi lo andai a trovare a Buia e conobbi la sua famiglia.
Semplice gente friulana, cresciuta al dovere ed alla fatica, ricca di Fede e di buona volontà.
Poche le loro parole ma di una delicata ospitalità. L’essenziale per l’uomo. Una mattina trepidante per tutte le assenze di Angelo, quasi presaga di quello che sarebbe più tardi successo.
Per questo, Angelo, che aveva per la famiglia un affetto reverenziale, doveva preparare ogni volta in segreto il suo bazar di articoli d’arrampicata. Ogni suo viaggio incontro alle Dolomiti, era una fuga, una mossa tattica per passare inosservato, come se si fosse trattato di andare al bar un attimo con gli amici, per poi rientrare.
Ed erano fatiche enormi, le sue.
Smettere il lavoro al sabato e mezzodì a Monfalcone, correre a Buia, inforcare la vespa, essere a notte nelle Dolomiti per un breve riposo, arrampicare la domenica e rientrare in serata, tardi, per un’altra lunga settimana di fatica.
Un ritmo sostenuto per mesi e mesi, con qualsiasi tempo, con qualsiasi strada, anche innevata, perché già a marzo lui sentiva il richiamo delle Dolomiti, e le sue fibre percepivano precocemente la primavera.
Ci rivedemmo nell’estate ’69, in Lavaredo per caso, in Civetta per appuntamento quando con Paolo Bizzarro per la Carlesso sulla torre di Valgrande.
Occasioni, queste, che rassodarono la nostra amicizia, con lui e col suo fratello Silvio.
Nonostante le poche parole, tutte sobrie, che lui pronunciava, non era difficile scoprire in lui un anelito che la pianura friulana non poteva saziare. Un ideale al quale tendeva con costanza, donando il meglio di se stesso, non per la pubblicità (il suo infatti, allora, era un nome sconosciuto nel campo dell’alpinismo) ma per un bisogno di vincere, di superare, di superarsi. E non c’era ostacolo che gli chiudesse il cammino, basterà sfogliare questo libro (il ragazzo di Buia n.d.r.) per averne conferma.
Nel tardo autunno ’69, passò per Forno di Zoldo – lo seppi dopo da lui – era diretto all’Agnér, fece in solitaria
Ed ecco che riaffiora ancora il suo animo: l’amicizia e la famiglia, due cose che lui non disgiungeva mai dalla passione per l’alpe.
Nel suo lavoro, la sua mente tesseva i piani più reconditi, per cooperare col fratello a migliorare la vita in famiglia, per incontrare spesso gli amici, per sentire, pure spesso, le crode strette tra le sue mani.
Mi diceva un giorno. “Le mie domeniche sono tutte così, viaggio e scalate, rubo anche il tempo alla messa, e la mamma ne soffre, ma Dio conosce il mo animo e son certo che è dalla parte mia”.
Non era la sua una ricerca di giustificazione, avrebbe voluto poter arrivare ovunque, ma questo non era possibile. O approfittare dei brevi spazi di tempo liberi da impegni, o sacrificare la festa restando in paese, nelle osterie, il che si sarebbe tradotto in sofferenza per lui, cuore silenzioso e grande, che cercava solo il silenzio e la maestà dei monti.
Ogni simile ama il suo simile.
Poi uno scambio di auguri a Pasqua nel ’70, quindi a maggio mi tenne per alcuni giorni l’ospedale di Feltre per un intervento, e fù là che una sera, tardi, me lo vidi arrivare in stanza. Veniva dal Rolle, non aveva scalato quel giorno, ma forse da quelle parti una ragazza aveva acceso per lui una fiamma. Parlammo di crode, di progetti per l’estate incipiente, e con un guizzo negli occhi accennò all’Eiger.
Ci salutammo contenti. E fu l’ultima volta.
Verso metà luglio, come d’accordo, lo attesi in Lavaredo, ma non lo trovai. Altri giorni attesi sue notizie, ma invano. Scadeva il 18 il suo compleanno e gli feci pervenire per posta, come strenna, il libro delle alpi. Uqel libro non lo vide, era partito per la Svizzera.
Attesi una settimana sue notizie, era quello il etmpo migliore anche per me per avvicinarmi ai monti, e per seguire con l’occhio le sue ascensioni. Poi, una lettera listata a lutto, vie da Buia. Mi colpisce il colore… penso alla mamma di Angelo, al padre, a tutti, meno che a lui.
E’ Auro che scrive, il fratello: “Don Raffaello, il nostro Angelo non c’è più… questo è il frontespizio della missiva, che continua: per noi sarà un grande conforto vederla e poter parlare del nostro Angelo…”
Da giorni non seguivo
Nobile creatura, quante lacrime ci è costato il commiato! Quanta tristezza ho trovato poi, nella tua casa, orbata del tuo sorriso, dei tuoi capelli arruffati, dei tuoi piccoli sotterfugi per sgusciare via, verso i monti.
Parlavi poco, ma eri la vita per i tuoi. Quanto a me, la tua mancanza mi ha impoverito. Ti cerco ancora al Tissi, parlo di Te, col Livio, con la sua sposa, vedo gli occhi di lei bagnarsi di lacrime.
Noi uomini facciamo i forti, non ci facciamo vedere a piangere, ma sentiamo che il cuore perde battiti al tuo ricordo. Preferisco guardare verso la Valgrande, verso la Carlesso, e cercarti, nell’Infinito, ove so che ti rivedrò. E a questo vecchio amico tu porgerai la corda di sicurezza e mi aiuterai per l’ultimo ‘sesto grado’, dopo il quale non ci saranno più né separazioni né lacrime, ma vita piena, di tutti noi amici, nell’oceano infinito di quell’Amore che nel Civetta e nell’Eiger pose solo un saggio della sua Forza e della sua Bellezza.