mercoledì 16 giugno 2010

CANNA D'ORGANO

Ricordando il grande Bruno Detassis mi è venuta voglia di rileggere quanto scritto in merito all'apertura della via Canna d'Organo ad Arco di Trento! Chissà se un giorno metterò mano su quella via...


Calcare e arsura: la valle del Sarca
“A Trento, nell’ambiente alpinistico, sentivo parlare della Canna d’Organo sul Dain, sopra il lago di Toblino. Sapevo che era già stata tentata”.
Se voi seguite la strada che porta a Sarche costeggiando il lago di Toblino, non potete far a meno di alzare lo sguardo e osservare questa magnifica struttura rocciosa che costituisce l’estremità meridionale del Piccolo Dain. Bruno cominciò la sua avventura insieme all’amico “Riz”, a bordo di una moto sgangherata, che in qualche modo li condusse a Toblino, come racconta pacatamente. “Lasciammo la moto alla casa di sotto, lungo la strada e, in poco tempo siamo andati all’attacco. Dico a Riz: “Prendi la corda e il sacco e intanto vai su per rocce facili dello zoccolo”, mentre mi apparto per qualche momento. Fatti neppure dieci metri, mi chiama e dice “qui non si va più avanti”. Lo raggiungo e ci prepariamo. Arrampichiamo con una certa difficoltà, giungendo dove incomincia per davvero la Canna d’Organo e dove finisce lo zoccolo. Qui troviamo dei chiodi con cordino, premuso dei primi tentativi.
Questo zoccolo, visto dal basso, sembrava facile. Invece è tutto “rovescio”, tutto vegetazione. Attacchiamo il diedro un po’ sporco di polvere, di foglie. Le difficoltà continuano fino a che arriviamo ad una fessura levigata. Alla nostra destra, spostato in una nicchia vediamo un nido formato da grossi rami. Era certamente di qualche rapace.
Superiamo la fessura. E’ già tardi. Non abbiamo più acqua. La sete si fa sentire. Abbiamo arrampicato dalla tarda mattinata fino alla sera, sempre in un caldo soffocante. Decidiamo perciò di bivaccare li. Fino a questo punto ho usato solo chiodi alle soste. Avevamo solo chiodi artigianali, fatti da me, Corrà o Stenico. Fortunati noi, che avevamo un chiodo da ghiaccio, di quelli militari, che mi ero portato dall’Adamello. Penetra sicuro nella roccia fino all’anello e ci dà la sicurezza del bivacco. Il posto è piccolo. Riz sta un po’ seduto e un po’ in piedi. Io sto in piedi tutta la notte, su quell’esile terrazzino. E’ stato un bivacco caldo, ma eravamo tormentati dalla sete e avevamo i crampi alle gambe. All’alba attacchiamo direttamente su una roccia che ha più del mattone che del calcare. Mi alzo circa una decina di metri, piantando tre o quattro chiodi. Ad un certo momento volo. Man mano che volavo, uscivano i chiodi. Il volo veniva rallentato da un chiodo all’altro, perciò Riz arrivava a recuperare la corda. Mi fermo al famoso chiodo dell’Adamello, senza conseguenze. Accendo un toscano, ma dall’arsura alla gola, non lo sento. Mi metto perciò a masticarlo. Ne offro uno anche a Riz che rifiuta. Dico a Riz: “Prova tu a fare questa lunghezza di corda, perché io ho talmente le mani stanche, che credo di non farcela più”. “Se non ce la fai tu, chi ci va su? Io no. Guarda, Bruno, se vuoi io suono l’armonica tutto il tempo che tu superi questo tratto di parete”. Provo di nuovo. Pianto qualche chiodo. Non perdo tempo e alla fine vinco questa parete difficile di roccia insidiosa, friabile per la sua formazione quasi cretosa. Non ci si poteva permettere di restare a lungo sugli appigli. Faccio levare il chiodo dell’Adamello a Riz, pensando che ci occorra ancora. E così, da una corda all’altra, con meno difficoltà di prima, ci troviamo in cima in mezzo alla vegetazione e possiamo prenderci un ben meritato riposo. Scendiamo verso sud, lungo il versante delle Sarche, per non andare verso il paese e fare il giro più lungo. Con qualche corda doppia ci veniamo a trovare su una traccia di sentiero. Arriviamo alla casa dove abbiamo lasciato la motocicletta. C’è una bellissima fontana. Andiamo dentro a rinfrescarci e a pulirci, perché siamo pieni di polvere e di terra. Abbiamo una sete che non ci dà pace, ma non vogliamo bere tanta acqua. Un ragazzino, per pochi spiccioli, ci porta un cestino di uva e fichi.
Questa salita, che ammiravo dalla base credendo fosse circa centocinquanta metri, risultò invece di trecentocinquanta. Abbiamo adoperato al massimo venti chiodi.
“A mio giudizio questa salita con i tratti in libera che ho fatto, dato che la roccia è malsicura e considerato i mezzi che avevamo allora, è certamente l’arrampicata più difficile che io abbia realizzato”.
La Canna d’Organo è un esempio di salita che non si svaluta con il passare del tempo. Tutti i ripetitori affrontano le stesse difficoltà, i chiodi sono pochi e malsicuri, la roccia è friabile.
Il giudizio di Alessandro Gogna, inquadrato in un contesto storico-alpinistico legato agli anni Trenta è significativo: “Con ciò la grande guida trentina non solo superò l’itinerario più difficile della sua carriera ma diede l’inizio, con grande anticipo, a quel movimento che avrebbe portato agli anni Settanta alla valorizzazione alpinistica della Valle del Sarca (1). Detassis, nelle sue interviste non dedicò mai grande spazio al diedro; la via della Canna d’Organo rimase per lui un’esercitazione da palestra, sia pur di estremo impegno. Un exploit che non coinvolgeva quello che Rudatis, proprio quell’anno, aveva chiamato il “sentimento delle vette”. Il “sentimento” di Detassis era altrove, sulle alte e vere cime del Brenta, oppure sulle altre grandi montagne dolomitiche. Eppure, a detta di molti moderni arrampicatori, la Canna d’Organo è una serie continua di passaggi di VI e VI+, con punte di VII- obbligatori, senza chiodi e su roccia friabile. Con questa impresa, veramente memorabile, comincia a calare il grande movimento degli anni Trenta. Essa fu l’ultima genuina impresa di VI superiore, l’ultimo tocco d’artista prima della guerra (2). E’ forse eccessivo parlare di settimo grado, ma è fuori discussione il valore assoluto della via, che la rende forse poco attraente o divertente rispetto ad altre, ma senz’altro più affascinante per chi vuole assaggiare del vero alpinismo in senso pieno e compiere un viaggio a ritroso sulle orme dei primi salitori, annusare un po’ di storia dell’arrampicata di quei magici anni Trenta.


(1) In verità la Canna d’Organo rappresenta la seconda nuova di Bruno Detassis sulle pareti della valle del Sarca. Infatti il 22 ottobre 1935 con Rizieri Costazza e Marino Stenico superò il gran diedro del Monte Casale, una parete alta ben mille metri, con difficoltà di V°+ e passi di VI°. La guida “Vie di roccia e grotte dell’Alto Garda” la definisce “via a tratti estremamente friabile, con passaggi delicatissimi. Pericolo di scariche e pietre. E’ difficile l’uso dei chiodi e di altri mezzi artificiali. Via completamente in libera”. (pagg. 188-190). Assieme a Detassis e Stenico anche alpinisti come Fox, Friederichsen e Miori contribuirono a dare un impulso decisivo all’arrampicata sulle pareti della Valle del Sarca.
(2) Alessandro Gogna, Sentieri Verticali, pag. 104