venerdì 11 maggio 2018

BUILDERING



di Jim Collins
Traduzione di Roberto Mantovani

“Il mezzo che mi ha dischiuso le porte delle scalate estreme è stato il buildering…
… sono arrivato a capire che, ciò che prima era ritenuto il limite umano su roccia, in realtà è solo una barriera psicologica…”

Per molti anni l’arrampicata è stata intesa da coloro che la esercitavano soprattutto come un’attività di tipo essenzialmente ricreativo. L’idea di fruire di un rigoroso programma di allenamento pareva una cosa del tutto assurda rispetto al concetto stesso di arrampicata e si diceva che un sistematico lavoro preparatorio avrebbe portato via molto del piacere derivante dallo spirito veramente libero di questo sport. Negli ultimi anni si è però arrivati a constatare che le cose non stanno esattamente in questi termini. Di fatto, la forma ottenuta per mezzo di un allenamento intensivo, che integri l’attività all’aperto con una certa dieta ed un determinato tenore di vita, sembra dischiudere nuovi orizzonti all’arrampicata.
Il mezzo che ho usato per sviluppare una forma che sentivo altrimenti irraggiungibile, e che mi ha dischiuso le porte delle scalate estreme è stato il buildering. Piano piano sono arrivato a capire che ciò che prima era ritenuto il limite umano su roccia, il 5.11, in realtà è solo una barriera psicologica da frantumare, una barriera che ci siamo creati proprio con le nostre mani. E comunque dobbiamo ancora arrivare vicino a quelli che sono i veri limiti fisici dell’uomo in arrampicata. I quattro minuti sul miglio sono stati per anni lo spauracchio psicologico da vincere: lo stesso si sta verificando ora in campo alpinistico per quello che riguarda la comparsa di un livello di difficoltà superiore all’attuale. A questo proposito, il buildering è ancora una delle strade più efficaci per gli arrampicatori che iniziano a sviluppare le loro attitudini. Ricordo, per esempio, di aver avuto un allievo molto dotato che riuscì a scalare il Naked Edge, nell’Eldorado Canyon, dopo solo sei giorni di lezioni: il suo nome è Brian Harder. Per riuscire a comprendere il perché di tanta facilità, bisogna risalire al momento in cui volli consigliargli di fare qualche arrampicata a secco sulle strutture edilizie della Stanford University, prima di venire il Colorado per le lezioni. Dunque Brian lavorò all’aperto per un mese di fila sui muri degli edifici e, sebbene la sua esperienza di arrampicate in cordata consistesse in tutto e per tutto solo in qualche piccolo tratto di 5.7 da secondo, egli fu ben presto in grado di cominciare col 5.10 e di continuare in grande stile sul Nakel Edge. La settimana successiva fu nuovamente condotto sul luogo e condusse il tiro di 5.11 in uno stile eccellente. Il segreto di tutto era dunque il buildering.
Alcuni dei migliori arrampicatori degli anni sessanta hanno usato con vantaggio diversi metodi di allenamento e di arrampicata sui muri degli edifici. David Breashears, Jim Erickson, Roger Briggs e Toni Yaniro costituiscono degli esempi notevolissimi. Toni per esempio, si era costruito una macchina da arrampicata, per fare del buildering, che poteva simulare fessure di ogni dimensione su cui poi “pompava in continuazione giri di circuito”. Questa è una delle regioni principali per cui Toni è diventato uno dei più forti arrampicatori di fessure in tutto il mondo.
Io, per esempio, non sarei mai stato in grado di effettuare le difficili scalate che ho portato a termine nell’Eldorado Canyon senza allenamento di buildering: scalate come Psycho e Genesis sono state i diretti risultati delle mie fatiche sui muri della Stanford University. Per la preparazione di queste salite sono andato alla ricerca di specifiche difficoltà di buildering.
Il metodo di allenamento di per sé è abbastanza semplice e i risultati più efficaci provengono dal lavorare all’aperto su basi costanti, preferibilmente ogni giorno. Il training quotidiano sembra dapprima richiedere un tremendo impegno di tempo, ma preso ci si accorge che è possibile fare a meno di una parte del tempo dedicato alla scuola o al lavoro e, una volta acquisita l’abitudine di uscire sempre, esso diviene una cosa natura come l’andare a letto ogni sera.
Io raccomanderei di alternare attività all’aperto di una certa durezza con altre più blande.
Qui sotto viene fornita una scheda campione:
1° giorno: Due ore – lavoro intenso sulle dita e sugli avambracci. Lunghi traversi.
2° giorno: Due ore – attività sui grandi muscoli (bicipiti, laterali, pettorali, ventrali). Arrampicare su muri che presentino difficoltà tali da garantire buone prese per le mani (per esempio vaschette trasversali), ma scarsi appoggi per i piedi, è una cosa eccellente per raggiungere lo scopo. Inoltre si potrebbe integrare l’attività menzionata con trazioni, sollevamenti, flessioni, ginnastica.
3° giorno: Un’ora – questo è il giorno in cui ci si cimenta solo con le difficoltà meno rilevanti e preferibilmente con quelle che “fanno le gambe”. In questo giorno sono ottimi anche esercizi di distensione.
4° giorno: Due ore – ancora lavoro intenso sulle dita e sugli avambracci.
5° giorno: Due ore – ancora lavoro sui grandi muscoli: fare degli scatti e correre delle distanze più lunghe per le gambe ed il sistema cardiovascolare.
6° giorno: Un’ora – esercizi di flessibilità e attività leggera sulla parte superiore del corpo. Questa giornata dovrebbe essere quasi un giorno di riposo completo.
7° giorno: Da quattro a sei ore – ricercare il maggiore affaticamento di ogni parte del corpo; fare dei lunghi traversi, risolvere problemi brevi ma di elevata difficoltà; fare anche molte trazioni e flessioni fin quando uno può resistere e poi ancora qualcuna di più. Infine scatti in velocità e corsa. Questo dovrebbe essere un genere di preparazione paragonabile ad un tipo di scalata estremamente differenziata, in cui si succedono diversi modi di arrampicata. Il concetto è di arrivare ad un buon livello di resistenza, che superi i limiti di breve periodo, necessario per le scalate lunghe e sostenute.
8° giorno: Giorni di riposo completo e di recupero. Poi il processo si ripete daccapo.
Sono possibili infinite variazioni a questa scheda di allenamento: personalmente ho potuto constatare che il tipo di lavoro descritto si è rivelato molto buono per il mio fisico e, inoltre, esso può facilmente adattarsi alla vita quotidiana di un qualsiasi studente di Stanford.
Un altro aspetto dell’allenamento che mi sta molto a cuore è costituito dalla dieta, fattore di eccezionale importanza.
Dal punto di vista arrampicatorio, il concetto sotteso ad una buona dieta è quello di immettere nell’organismo tutte quelle sostanze che possono rifornirlo delle sue necessità, senza peraltro gravarlo di un sovraccarico di peso muscolare non necessario. Il fattore più importante è sempre il rapporto peso-potenza e non la forza brutale, quella che può ridurre una panca da 360 libbre in una scatoletta.
Teoricamente, divenendo il più leggeri possibile senza però perdere le forze, si dovrebbe raggiungere un’ottima forma. Per perseguire questo scopo ho constatato che è molto utile:
1) non far uso di carne di manzo o di maiale;
2) usare pochi alimenti zuccherati: la frutta è di gran lunga migliore;
E veniamo ora ad argomenti interessanti, come le droghe, il sesso, l’alcool.
Per molto tempo mi sono domandato se fosse necessario condurre un’esistenza “pura”. Personalmente credo che, se fatte con moderazione, siano ben poche le cose veramente nocive e che talvolta, in una certa misura, esse possano persino essere utili. E comunque, molto difficile tracciare una linea di demarcazione tra ciò che è necessario e ciò che è eccessivo.
Per quanto riguarda gli stupefacenti, ognuno deve scegliere la propria esatta quantità. In precedenza ho arrampicato sotto l’effetto della sola cocaina; la sua stimolazione mi ha fornito l’ispirazione per superare quell’orribile problema chiamato “Kiekegaard’s Leap of Faith” (il salto della fede di Kiekegaard), che altro non è che l’arrampicata del generatore di elettricità di Stanford. In ogni caso non vorrei raccomandare come pratica comune l’uso della droga. Facendo riferimento al sesso, direi che non sono né il partner dell’altro sesso, né l’atto in sé, che possono causare dei problemi, quanto piuttosto il tirar tardi la notte per causa loro. In ogni caso, però non c’è alcunché di vero nel “troppo sesso”. E’ una frottola! Anche l’ebbrezza alcolica è una questione da esaminare.
Mi ricordo che c’è stato un periodo in cui facevo le nottate e il giorno dopo ero in grado di arrampicare ugualmente bene; per alcuni il bere non sembra proprio essere un problema (vedi gli inglesi), ma molti altri sono costretti a pagarne il prezzo.
Ognuno dovrà pertanto agire di conseguenza. Attenzione anche alla caffeina: è nociva alla vostra routine di riposo.
Dieta: bisogna ingerire una gamma completa di proteine; ciò può venir fatto con una ricca e studiata cucina vegetariana o attraverso un supplemento proteinico al cibo. Personalmente credo che un supplemento proteinico sia più salutare, ma è possibile disporre anche di altri mezzi ugualmente efficaci.
Mi è stato chiesto se il sollevamento pesi sia un buon sistema di allenamento. Può esserlo se non si aumenta troppo di massa e se non ci si dimentica dell’importanza della forza delle dita e degli avambracci, che in ogni caso non può essere ottenuta spingendo dei pesi. Bisogna mettersi in testa che l’arrampicata non è mai una questione di forza di bicipiti: se però le vostre dita sono troppo deboli per artigliare degli appigli, allora non potete fare delle scalate. Greg Lowe, uno degli arrampicatori che negli anni sessanta faceva più colpo, metteva sempre in rilievo l’importanza di una stretta forte.
Vorrei ancora accennare che il buildering e l’allenamento possono essere molto di più che un mezzo per diventare buoni arrampicatori, possono essere una remunerativa e piacevole esperienza in sé. Una delle cose più simpatiche è che ci sono sempre dei muri per arrampicare e la creatività di ognuno può essere stimolata a determinare quanto la struttura edile venga usata per allenamento e quanto per divertimento. E’ molto conveniente allenarsi quando si è a scuola o al lavoro: è un buon sistema per svuotarsi la testa dalle preoccupazioni quotidiane e ci si dimentica di tutto quando si è allungati verso un appiglio al di fuori della nostra portata.
E poi la bellezza di tutto questo sta anche nel fatto che non si è costretti ad andare ad ogni costo in zona di scalata per gustare di quella libertà. Non bisogna comunque mai dimenticare che l’attività presa in esame dovrebbe sempre e comunque essere considerata come un momento di divertimento.

martedì 17 aprile 2018

IL DECALOGO DEL ROCCIATORE di Emilio Comici

Crediamo sia inutile spendere battiti di tastiera per descrivere Emilio Comici.
Molto più interessante può essere far conoscere il "Decalogo del Rocciatore" che lui stesso aveva scritto.
1) Non affrontare mai la montagna con leggerezza; cioè senza una buona preparazione tecnica, fisica e morale.
2) Ricordati che in montagna si cela sempre l'insidia: perciò assicurarsi sempre vicendevolmente anche nei passaggi apparentemente semplici.
3) Fa sempre la sicurezza con la corda alla spalla, e possibilmente attraverso uno spuntone di roccia od un chiodo.
4) Osserva sempre con massima attenzione tutti i movimenti del capocordata.
5) Quando avanza il secondo di cordata, se tu fai sicurezza non sporgerti mai per parlare o per vederlo.
6) Non smuovere sassi. Ricordati che uno dei maggiori pericoli dell'alpinismo in genere sono i sassi fatti cadere dal compagno che avanza.
7) Non essere mai inquieto e non imprecare mai contro il compagno
8) Quando ti trovi in difficoltà mantieniti calmo e non aggrapparti disperatamente alla roccia.
9) In un passaggio che per te è molto difficile, non salire mai a caso sperando di trovare l'appiglio, non proseguire mai quando hai le mani gelate o rattrappite per la stanchezza, non arrischiarti mai se non hai almeno un chiodo sicuro al massimo quattro metri sotto di te.
10) Ubbidisci sempre a quella "voce interiore" che ti dice di non attaccare quel dato giorno la parete.

CLAUDIO BARBIER

Arrampicare insieme è come fare l’amore: non si può fingere, non si può nascondere la vera personalità; salta fuori l’essere intimo della persona; senza bisogno di parlare si liberano tutti i sentimenti, tutte le emozioni. Si può capire un individuo dal suo modo di arrampicare come dall’analisi grafologica della sua scrittura, dal suo tema astrale, dal sangue, dall’elettrocardiogramma… Ci si può mostrare come si vuole, ma arrampicando non si nasconde più niente, vengono a galla l’insicurezza e la paura o la tranquillità, l’egoismo o la generosità.
Arrampicare è un problema, insieme fisico e psichico, che bisogna risolvere da soli, ognuno per sé, con la propria mente e il proprio corpo, ma in più condividendo tutto con il compagno di scalata: esattamente come fare l’amore. Tra compagni di cordata nasce un’intimità intensa. L’amore non è necessario, ma sono indispensabili il rispetto, la fiducia, la stima, il capirsi senza dover parlare, il saper intuire, il conoscere le reciproche forze fisiche e soprattutto mentali.
In quelle poche ore ho vissuto un concentrato di esperienza umana: la solitudine, la solitudine fondamentale dell’uomo… La montagna ne è la migliore rivelatrice ed è questo il suo fascino: ci si trova da soli davanti ai problemi da risolvere, nessuno può aiutarti, non c’è altra soluzione che continuare. Non ci si può fermare, chiedere aiuto, piangere, tornare indietro, far fare le cose ad un altro o fuggire. Volenti o nolenti, si deve andare avanti, salire, uscire dalla via con le proprie forze, ognuno per sé, da soli.
In montagna non si può fare finta, non si può barare; così come non può farlo il navigatore solitario che sta solo nella grandiosa solitudine dell’oceano.
Nella vita quotidiana siamo illusi dalla presenza ‘degli altri’; non vogliamo nemmeno riflettere, per non riflettere ci lasciamo ipnotizzare da mille sotterfugi, ma nella realtà siamo terribilmente e irrimediabilmente soli.
Soli quando nasciamo, soli quando dobbiamo affrontare e risolvere le difficoltà della vita, soli quando soffriamo, soli quando capiamo quanto soffriamo, soli infine quando moriamo. Anche se circondati da tante persone.
La montagna insegna a prendere coscienza della propria solitudine, a valutare le proprie forze, a gestire paure e debolezze, a camminare malgrado tutto, perché non c’è altra soluzione.
La montagna è un grande implacabile maestro.

Dal libro "La via del Drago" di Anne Lauwaert e dedicato a Claudio Barbier

ROBERTO BASSI

Il venerdì, a sorpresa, mentre la ragazza è fuori a contemplare la bellezza del paesaggio, vede arrivare un camminatore solitario. “Sale troppo velocemente per essere un gitante qualunque!”. Guarda meglio e vede i lunghi capelli biondi di Roberto. La gioia è davvero tanta, non se l’aspettava proprio. Vivono insieme una delle serate più intense, come in un castello medioevale fatto di roccia di corallo e la polvere di stelle come volta. 

Si fermano li qualche minuto, attaccati allo stesso chiodo, a sentire il respiro affannoso e i battiti accelerati. Poi la ragazza, distogliendo lo sguardo dai suoi occhi, chiede:
“Tu hai mai paura di morire?”.
“No, non ho paura, perché la morte è un cambiamento, un divenire. E non dobbiamo avere paura dei cambiamenti. Si sta spesso lì al limite, e non c’è il coraggio di cambiare. Morire è solo andare più in alto. Come faccio ad avere paura?”.
“E di cosa hai paura allora?”.
“Dell’arroganza, che viene dall’ignoranza. Non parlo di studiare, lo sai bene, ma di quell’ignoranza che esclude ogni visione diversa. La non volontà di approfondire, la malignità della superficialità”.
da Zandara e Labbradoro - Roberto Bassi e la nascita del free climbing in Valle del Sarca di Marianna e Lia Giovanazzi Beltrami - edito da Versante Sud.

L'APE - ASSOCIAZIONE PROLETARIA ESCURSIONISTI

In Grigna quanti hanno ripetuto lo Spigolo APE all'Ago Teresita?
E quanti di voi sanno qualcosa dell'APE, ovvero dell'Associazione Proletari Escursionisti?
E del fatto che all'atto della sua nascita la sigla era AAPE perché l'associazione si proclamava Antialcolica?
Esistono un paio di libri che vale la pena leggere a riguardo. Uno si chiama "Liberamente tra i monti" ed è stato scritto da Barbara Curtarelli, l'altro "Sentieri Proletari" è firmato da Alberto Di Monte.
L'Ape aveva anche una sua rivista che veniva mandata ai soci.
Nel numero di Luglio/Agosto del 1922 si possono leggere queste righe, che sono ancora attuali.
La città – coi suoi mostruosi agglomerati di popolazione, coi suoi mezzi di comunicazione dalle velocità fulminee, col suo ritmo di vita febbrile – porta pure, insieme coi benefici, dei pericoli e dei danni.
Invano noi cercheremo nelle immense città, ove si agglomerano milioni di individui, la primitiva e sana semplicità di costumi dei piccoli paesi.
Non è possibile che milioni di uomini convivano così accatastati, senza che l’ambiente si trasformi, senza che l’aria di corrompa e si inquini. […]
Non più i verdi silenzi dei prati, non più le pure arie dei campi, non più le azzurre serenità dei liberi cieli.
Seppelliti in mezzo alle nostre case opprimenti, noi passiamo la vita nelle celle anguste delle nostre abitazioni o sul selciato riarso di strade malsane.
E intorno, la vita febbrile, coi suoi mille rumori, colle sue luci false, colle sue artificiosità perniciose.
Noi siamo usi fare della notte giorno e defraudare le ore più proficue al sonno e al riposo.
La nostra vita non ha requie.
Ed è per questo che così frequente è il bisogno di stimoli artificiali.
Ed è l’alcol, fra tutti gli eccitanti, il più pericoloso.

IL RESEGONE


MONTE RESEGONE, m. 187 (Prealpi Lecchesi)

Potrebbesi dire “Magno Resegone”: illustro lecchesi – Manzoni e Stoppani – lo hanno decantato all’universale, così che non è chi non lo sconosca attraverso i “Promessi Sposi” od il “Bel Paese”. Caro agli italiani, amico al cuore ambrosiano; è addirittura familiare ai lecchesi; che, a pena amino le belle prealpi, lo ascendono parecchie volte ogni anno. Gli onori immortali, scritti, e quelli modesti, camminati; davvero non si possono ascrivere solamente ad un fortissimo destino. Meriti, permettete, personali furono ad esso largiti regalmente da madre natura. Fisionomia magnificamente strana, riconoscibile, di colpo, da lungi; colorito pittorico sempre aggraziato da linee d’ombra, da fasce e da contesti, or verdi ed or bianchi; accessibilità varia: per boschi e per prati alle rocce vertiginose od ai dolci sentieri; ubicazione splendida d’isolamento con un bel lago ove specchiare la dentellatura il mattino, arrossimenti meravigliosi ad ogni sereno tramonto. Si può ritenere il Re delle Prealpi Lecchesi, nonostante i fratelli (Pizzi: Legnone e Tre Signori) e le sorelle (Grigne: Settentrionale e Meridionale) lo sorpassino in altezza. Alla sorellina (Grignetta) può invidiare le caratteristiche femminili: guglie, aghi, ricami, crestine; se bene esso pure, più modestamente, offre a coloro che lo studiano da vicino: crinali esili, taglienti; picchi sostenenti massi in eterno pericolo, fori ad arco, cavernette (diverse nel canale di Bobbio; una, nel Canalone Comera, con ingresso ad antro, denominata “Giulia”, perforante le propaggini della Punta Stoppani), con concrezioni calcari e stalattiti interessanti. Sono un poco del Resegone le Caverne Daina e la Grotta de’ Polacchi di Rotafuori (Valli-Imagna), esaltate nella serata ottava del “Bel Paese”.
Due nuove vie hanno segnato sul Resegone i Soci della Sez. di Lecco del CAI approfittando dei solchi che spartiscono dente da dente. Le vie iniziato nelle gengive dei caratteristici canini così che, oramai, ogni incavo, tra cucuzzolo e cucuzzolo, si può attingere dal versante lecchese: il più noto e più bello col suo aspetto alpinistico.

Sono vie di roccia, non difficili, richiedenti però una discreta pratica di arrampicate. Comitive numerose non sono consigliabili per ragioni ovvie di sicurezza, specialmente cadute di sassi, trattandosi di canali ripidi ed ingombri di detriti.
Il canale Cermenati (in ricordo del defunto presidente del CAI Sez. Lecco, il prof. Mario Cermenati, geologo, ex-deputato, ufficiale alpino di guerra) si stacca dal sentiero comune pochi passi prima del noto canalone Comera (quota 1420 ca), si innalza tra erbacce e sterpi e sassi mobili per entrare in una stretta fessura, a caminetto con brevi terrazzetti, che verticalmente accinge lo sbocco a ventaglio, erboso. Nei punti più difficili, chiodi e corde metalliche fisse. Segnalazione a C., in minio. Salitori i soci della Sez. di Lecco (Castelli C. Fioretta e Ravasi); il primo però (20 giugno 1915) il signor Eugenio Fasana (Sez. Milano C.A.A.I.); il quale, amichevolmente, ha rinunciato al battesimo.
Il canale Cazzaniga (in ricordo del defunto socio Cazzaginiga Giuseppe, ex-capitano degli alpini, decorato di guerra) lascia il canalone Comera (a quota 1500 ca) quando questi, con un giro ampio a destra, contorna la ripida base della Punta Stoppani. Il Canale Cazzaniga prosegue dritto, poggiando verso la Punta suddetta, con scabrosi sollevamenti in parete di poca consistenza; e sbocca, dopo un erto valloncello sabbioso, in parete verticale con buoni appigli e appoggi. Segnalazione a crocette, in minio; serve un chiodo di assicurazione, già infisso. Lo salirono i soci della Sez. di Lecco: Castagna A., Perego G. e Rigamonti (Pinin).
Come appare dalla fotografia, reverentemente è stato ricordato il sommo lecchese, Alessandro Manzoni, intitolando al Suo nome la punta che è situata tra la Stoppani ed il Dente: visibile da Lecco, più nettamente verso l’Adda.

domenica 1 aprile 2018

GLI SCALPELLINI


Gli scalpellini
di Andrea Andreotti

É molto triste, per non dire doloroso, vedere bistrattato l'alpinismo che si ama. Frasi come: “É una via da scalpellini”, “Roba da fabbri”. “E una via di valore, se levi tutti i chiodi e li vendi…”. “E’ una ferrata, una scala, una scalata pompieristica” sono ormai all'ordine del giorno nel mondo alpinistico. Non sono certo frasi elogiative, né invitano ad andare a ripetere quelle tali vie così drasticamente classificate.
Quelle frasi suonano come un anatema, come una scomunica che pone fuori dall'alpinismo “vero” gli apritori di quelle vie ed ancor di più coloro che vanno a ripeterle. Se infatti gli apritori sono degli scalpellini, coloro che vanno a ripeterle sono quei famosi “buoni a nulla” che salgono con le staffe persino sul III grado. Non solo. Gli apritori vengono chiamati scalpellini quando va bene, quando non sono accusati di essere dei terribili “assassini” che cinicamente “uccidono” l'alpinismo per il puro gusto di piantare chiodi facendo magari una fatica cane. Per non parlare poi di quelli ignobili “rubaproblemi” alle generazioni future, che sarebbero tutti coloro che aprono vie nuove usando quegli orripilanti chiodi a pressione. Ignobili perché invece di salire certe lavagne in arrampicata libera usano, poveretti!, i chiodi a pressione. Perché invece di “tornare a casa ad allenarsi meglio” capiscono subito che di lì o “si passa a pressione”, o non si passa.
“Meglio non passare” dicono i vecchi.

“Lasciamo il problema alle generazioni future” dicono i giovani a cui fa “sfizio” toccare i chiodi a pressione.
Come se le generazioni future, per chi sa mai quale dono divino, potessero riuscire a pussare senza chiodi od altri ausili tecnici, là dove oggi sono necessari, dico necessari, i chiodi a pressione. E questi accaniti fautori del classico bollano i loro fratelli alpinisti con il marchio infamante (o che loro credono tale) di “scalpellini”, solo perché aprono vie con molti chiodi o con chiodi a pressione.
Costoro forse non sanno che gli scalpellini, i fabbri, i manovali, fanno il loro lavoro su ordinazione, per questo lavoro vengono pagati e nell'eseguirlo non corrono alcun rischio, né dormono una notte, dico una, fuori da un comodo Ietto. Proprio come coloro che aprono le tanto discusse “vie ferrate”… Costoro al contrario sono degli artisti, scultori e poeti. Tra chi apre una nuova via per un profondo bisogno interiore ed in essa cerca di trasfondere tutta la sua forza, la sua morale, la sua concezione dell'alpinismo dando tutto se stesso senza nulla ottenere; fra costui, dico, ed uno scalpellino vi è una bella differenza. La stessa che vi è fra uno scalpellino ed uno scultore, fra uno scribacchino ed un poeta, i quali pur facendo lo stesso lavoro manuale producono cose completamente differenti: comuni e banali le une, ricche di un profondo contenuto spirituale ed estetico te altre.
Solo quando si sentiranno dialoghi di questo tipo, si potrà parlare di scalpellini:
— E’ lei...?
— In persona.
— Mi hanno detto che lei è il miglior chiodatore della zona.
— E il meno caro.
— Mi servirebbe una via.
— A pressione?
— Naturalmente.
— Dove la vuole?
— Sulla parere sud del Pagaben.
— Benissimo. Di che lunghezza?
— 200 metri.
— Una o due cordate?
— Meglio una. E la spesa?
— Facciamo subito. Dunque, 200 metri a 500 lire il metro, che è la tariffa minima, sono centomila lire. Poi ci sono i bivacchi.. tre dovrebbero bastare. A diecimila lire l'uno sono trentamila lire. I chiodi sono compresi nel prezzo. Ecco fatto. Con 130.000 lire, massimo 150 se ci sono imprevisti, lei avrà la sua bella via.
— Perbacco, davvero poco!
— Modestamente… E come la vuol chiamare?
— Col mio nome, naturalmente.
— Benissimo. Per il pagamento metà subito, e metà ad impresa compiuta.
Ecco. Quando gli alpinisti saranno ridotti a tal punto avranno ragione coloro che spregevolmente li chiamano “scalpellini” e “fabbri”. Ma fino a quando una nuova via nascerà come prepotente bisogno di un uomo che cerca di esprimere se stesso, l'alpinismo vivrà. E chi oserà chiamare scalpellini gli alpinisti rivelerà a tutti la sua meschinità. La meschinità di chi non capisce la differenza che c'è fra un fabbro ed uno scultore, fra uno scalpellino e Michelangelo.

venerdì 30 marzo 2018

ANGELO URSELLA


Nell’estate 2012 incontro, al termine di una conferenza, Sergio De Infanti (che con Angelo Ursella stava tentando la parete N dell’Eiger) e privatamente gli chiedo di raccontarmi qualcosa su Ursella che non avrei mai trovato in un
libro. De Infanti borbottò qualcosa di poco comprensibile e poi esclamò: Mi manca da morire!

Ursella aveva compiuto numerose salite solitarie per via del fatto che non riusciva a trovare compagni di cordata. Pubblicò persino un articolo sulla Rivista del CAI nel quale cercava soci. Arrampicò diverse volte con Samuele Scalet. Molto belle sono le parole che Ursella spende nel suo diario per descrivere l’amico.

Nella notte fra il 16 e il 17 luglio ’70, ferito gravemente dopo un volo di 30 m, dovuto al cedimento del terrazzino e dei chiodi di auto-assicurazione, moriva sulla parete N dell’Eiger, tra l’infuriare di una tremenda bufera, Angelo Ursella, una delle più fulgide speranze del nostro alpinismo.
Era a trenta metri dal nevaio sommitale: a questo punto era giunto dopo due soli giorni di arrampicata effettiva!
La sua attività, qualitativamente, era stata eccezionale.
Dopo breve tirocinio nelle palestre, inizia nella primavera del ’67 con la solitaria della Cassin alla Piccolissima di Lavaredo. Durante la discesa a corda doppia, lungo la stessa via, il primo incidente: un sasso lo colpisce alla testa ed egli arriva esausto e sanguinante al rifugio Auronzo; salvo per miracolo!
Uscito dall’ospedale, ricomincia con accanimento l’allenamento e, dopo la Preuss alla Piccolissima, sale a ferragosto lo Spigolo Giallo.
Nel ’68 a Pasqua, inizia con la Myriam e la diretta Franceschi alle Cinque Torri. In giugno sale e scende da solo lungo la Cassin alla Piccolissima ed effettua quindi la prima solitaria dello Spigolo degli Scoiattoli alla Ovest di Lavaredo, con un bivacco nella bufera, e riportando congelamenti di secondo grado alle mani. In luglio, con le mani ancora piagate, rifà li Spigolo Giallo. Poi è la volta della Hasse-Brandler alla Nord della Grande di Lavaredo. Segue la prima solitaria (e 3a. ascensione) della direttissima alla Punta Giovannina nelle Tofane per la via Ivano Dibona, in 5 ore.
Il ’69 inizia con la solitaria alla Myriam (Cinque Torri) e alla Maestri-Baldessari alla Roda di Vael, in 7 ore. Sempre da solo sale lo Spigolo N dell’Agner, pure in 7 ore.
Ecco poi il suo esordio nelle Occidentali: sale la via Cassin alla Punta Walker delle Grandes Jorasses.
A ferragosto sale la via Carlesso alla Torre di Valgrande, in Civetta, e nel ritorno un banale incidente sul sentiero gli procura una distorsione al ginocchio e un mese di penosa inattività.
Riprende con la Comici al Campanile II di Popera, con lo spigolo Demuth alla Cima Ovest di Lavaredo e con la S della Tofana di Rozes (via della Julia) ove traccia una più diretta e difficile variante. Conclude la stagione salendo da solo i 1600 m della N dell’Agner (via Iori) nello sbalorditivo tempo di 5 ore effettive.
La sua tecnica, in continua evoluzione, sta ormai per raggiungere la perfezione e così anche i tempi di arrampicata si riducono notevolmente.
Nel dicembre del ’69 esordisce nel meraviglioso e sbalorditivo regno delle invernali. Effettua due prime invernali sul Bila Pec (Alpi Carniche). Nella prima (un V grado), è costretto a un bivacco sulla cima, in mezzo alla bufera e nella seconda (una via in arrampicata artificiale) un chiodo che si sfila lo costringe a un volo fuori programma.
Nell’aprile ’70 è respinto, in un tentativo di vie nuove, dalla Terza Pala di S. Lucano. Dopo esser salito 900 m, a 400 m dalla cima placche lisce lo costringono alla ritirata: indispensabile la chiodatura a pressione: ma a questo patto preferisce rinunciare. Per ora non ne vuol sapere di chiodi a pressione. Li userà, forse, quando avrà fatto tutto ciò che è umanamente fattibile con i mezzi tradizionali.
Non si sentiva degno di usarli perché – diceva – prima uno deve fare tutto ciò che è possibile in arrampicata tradizionale. Ma, conoscendo la sua coerenza e la severità di giudizio nei suoi confronti, c’è veramente da credere che mai li avrebbe usati.
A fine maggio apre nelle Alpi Carniche tre nuove vie estreme; poi inizia la preparazione per l’Eiger, preparazione che si concretizza con sei vie nuove; con la Costantini alla parete del Pilastro di Rozes e con una nuova, meravigliosa via al Dain (Brenta).
Poi… l’Eiger!
Era nato a Buia, in provincia di Udine, 23 anni fa.
Dalla fine del ’69 apparteneva al Gruppo Alta Montagna della Sezione CAI-UGET di Torino. All’inizio del ’70 ritirava a Roma un premio di L. 100.000 vinto per essersi classificato nei primi posti a un concorso fra lavoratori-alpinisti. Ricevuto dal Papa, gli prometteva di fare al più presto… la Paolo VI al Pilastro di Rozes: ma non potrà mantenere la promessa!
Stava per arruolarsi come finanziere nella Scuola Alpina di Predazzo: voleva donare tutto se stesso alla montagna e, con i mezzi e il tempo che avrebbe avuto a disposizione, sarebbe definitivamente esploso.
Era forte, buono, sano, amico, umile. Ecco: umile.
E’ la dote che in lui più rifulgeva. Una umiltà non voluta e faticosamente imposta, bensì spontanea, naturale. Avrebbe ben avuto il diritto di sentirsi fiero delle sue imprese e invece non si considerava nemmeno un alpinista.
Mi considererò tale, diceva, solo dopo aver aperto vie nuove di sesto grado. E queste vie le aveva aperte, ma continuava a dire, alludendo alla Preuss alla Piccolissima, che dobbiamo sentirci tutti piccoli, piccoli così.
Pur non avendo conosciuto l’odio, la meschinità e la polemica, non riusciva proprio a comprendere come molti denigrassero e sottovalutassero le vie classiche.
Una volta divenne letteralmente furioso, quando qualcuno gli disse che il passaggio finale della via normale alla Piccola di Lavaredo era di una facilità irrisoria.
Lui lo considerava un buon passaggio di IV e, osservando gli appigli unti e ‘consumati’, non si può certo dargli torto e affermare che qualcuno non ci sia scorticato le unghie. Lui, che saliva in arrampicata solitaria le pareti più vertiginose e superava gli strapiombi più pazzeschi, s’indignava per così poco!
Ma se era poco in linea pratica, era molto in linea di principio.
Questo era Angelo Ursella!
E così lo ricorderanno tutti coloro che hanno avuto l’onore di conoscerlo e di legarsi alla sua corda, che saliva gioiosa e veloce verso la felicità e le bellezze delle cime; cime sulle quali solamente Angelo si realizzava compiutamente.

MARY VARALE

Quante volte, durante la ricerca della via da ripetere nel fine settimana, è comparso il nome di Mary Varale? Quante volte il suo nome è a fianco di personaggi di altissimo livello come Cassin, Comici, Andrich?
Eppure in pochi sanno che Mary Gennaro Varale aprì nel 1934, con Andrich e Bianchet, una via di sesto grado sul Cimon della Pala (Pale di San Martino). Un’impresa di assoluto rilievo che però venne in toto snobbata dal CAI che quell’anno decise di assegnare la medaglia d’oro a Chabod. Era evidente che il CAI non volle premiare l’impresa per via del fatto che era stata compiuta con una donna.
Visto il diniego, la battagliera Mary rivolge al presidente della sua sezione, Francesco Terribile, queste coraggiose parole:

Milano, 20 luglio 1935
Caro Signor Terribile,
non si stupisca della lettera di dimissioni, anzi la prego di non insistere perché le ritiri ma di mandarmi subito il benestare che mi occorre per ragioni personali. Sono profondamente disgustata della persecuzione contro di me da quei buffoni della Sede Centrale che hanno negato la medaglia ad Alvise [Andrich, ndr]soltanto perché ha avuto la colpa di scegliere come compagna di cordata l’odiata signora Varale. Nelle proposte fatte nel mese di febbraio Alvise c’era; poi hanno fatto i giochi dei bussolotti per cacciarlo fuori e hanno scoperto la formula delle 3 salite ogni anno come ha dichiarato il generale Vaccaro a mio marito.
Il generale ha detto che la proposta di sole tre medaglie è proprio venuta da Manaresi e che tiene a sua disposizione il documento .L’ingiustizia dell’esclusione della punta Civetta e del Cimon de la Pala è troppo grossa e dimostra che c’è il partito preso per farci del male dopo aver sfruttato le nostre fatiche e il rischio della morte per prendere lui l’onorificenza al merito sportivo (Manaresi!) Nota: si fece conferire la medaglia! In questa compagnia di ipocriti e di buffoni io non posso più stare, mi dispiace forse di perdere compagnia dei cari compagni di Belluno, ma non farò più niente in montagna che possa rendere onore al Club Alpino dal quale mi allontano disgustata anche per un ‘altra ingiustizia commessa col rifiutarmi un articolo. Se le importa sapere e farlo sapere, le dico che Chabod davanti ai miei occhi è volato sul quarto grado in Grigna e l’altro ci ha messo venti minuti per fare un passaggio che noi passiamo in 30 secondi. Evviva le medaglie d’oro!
Mi saluti gli amici e abbia di me il buon ricordo che io ho dei bellunesi. Cordiali saluti a lei e alla sua signora.
Mary Varale

venerdì 23 marzo 2018

MISURE DIVERSE

La recente avventura di Matteo Della Bordella in Patagonia mi ha fatto tornare indietro nel tempo.
Ho riavvolto il nastro dei ricordi e portato alla luce una fotografia e un testo.
La fotografia a molti non dirà nulla. A me ricorda gli spazi ampi e infiniti di quella parte di mondo che molti conoscono solo per via di montagne ultra fotografate. Ma la Patagonia è tutt'altro, forse anche uno stile di vita.
Il testo invece è di Gino Buscaini e insegna a misurare il tempo con altre unità di misura.
Grazie Matteo per le emozioni che mi hai trasmesso con la vostra salita.E naturalmente, complimenti!


MISURE DIVERSEdi Gino Buscaini
La Patagonia è immensa.
Il suo spazio è infinito, un infinito che si misura con ore a piedi o a cavallo, scardinando dolcemente sotto le suole o sotto gli zoccoli, quasi senza avvertirlo, metri, tachimetri, orologi, abbandonandoli affogati nelle paludi e nei guadi.
Aste, molle, rottelline e chip, connessioni di un sistema che non serve, di disintegrano nell’immensità.
Lo spazio si misura con filari di pioppi, che con i loro tronchi rugosi stanno fermi tra i coltivi, le steppe e le piste sterrate; poi si misura con le impronte fugaci di cani, buoi, cavalli, carri e biciclette, di piedi scalzi di bambini. Tre piedi scalzi = due piedi calzati.
La velocità non ha nessuna importanza, quindi non esiste, nemmeno quella delle automobili. In Patagonia si può camminare in mezzo alla strada, dove c’è.
Quando arriva un’automobile, un turbine di polvere l’annuncia all’orizzonte, ma la sua velocità non ha importanza poiché quando passa di solito si ferma e qualcuno dice ‘qué tal?’, cioè domanda come va.
Allora si vede anche che l’automobile può essere senza targa. Se non si ferma, è solo un turbine che passa e non si vede niente.
La misura del tempo, tic tac tic tac, sono gli zoccoli svelti del cavallo che passa di primo mattino, sono grida di otarde e di galline, sono il viaggio diurno delle ombre e il viaggio delle stelle per chi si sveglia la notte.
Il tempo non scorre dal passato ma viene incontro dal futuro.
Viene incontro con il vento, pulsa con le turbolenze delle raffiche e con gli stacchi delle calme improvvise. Dipinge gli animi con nubi cariche di colori, dove i plumbei più foschi si alternano ai celesti più tenui, con nubi che mutevoli sfilacciano le loro forme, stemperano le tinte, portano ed esauriscono le tempeste.
Il vento è la misura della vita ed è onnipresente: avvolge di polvere e luce la cordigliera, la pampa e tutti gli altri cammini.

martedì 20 marzo 2018

MICHELE BETTEGA

Mi trovo, quasi per caso, il necrologio di Michele Bettega e ne resto colpito. Diverse le particolarità: dalla ‘spaventosa’ età della celebre guida al numero di volte che ha toccato la vetta del Cimon della Pala.
Ma la cosa che più spiace è che nel necrologio non si fa minimamente cenno al fatto che fu lui, con Bortolo Zagonel e Beatrice Tomasson a conquistare nel 1901 la parete sud della Marmolada.
Oltre al necrologio riporto la trascrizione e la traduzione del libretto guida di Bettega nonchè la fotografia del libretto e il martello di Zagonel utilizzato durante la celebre scalata. Il martello, che forse meriterebbe una teca in vetro al museo di Messner, riposa, per una serie di fortunate coincidente, nella piccola biblioteca di Will.

E’ morto Michele Bettega; la guida alpina che da vari anni s’era ritirato nella sua Fiera di Primiero dove viveva dei luminosi ricordi della sua carriera d’eccezione, tutta un susseguirsi di vertiginose scalate per vie inesplorate. Fra i suoi mondi, ch’egli amava francescanamente come un immenso tempio, il decano delle guide alpine ritrovava la dolcezza dell’estasi, nella contemplazione dell’orizzonte di vette, che fin da fanciullo aveva imparato a guardare con occhio di poeta e a venerare con purezza di asceta.
Michele Bettega, spentosi a 85 anni avendo conservata fino all’ultimo momento la più integra lucidità, era stato davvero una tempra d’eccezione. Nella sua lunga attività di guida alpina, giustamente celebre, egli aveva fatto ben 206 volte il Cimon della Pala, e per quasi 50 anni aveva scalato tutte le vette dolomitiche, spesso conquistandole per primo. La sua umiltà rude e bonaria gli aveva guadagnato l’amicizia di personalità illustri, che apprezzavano oltre alla sua rara abilità professionale, il suo mistico amore per la montagna.
Venti anni fa durante una drammatica scalata notturna, mentre guidava sulla parete del Colbricon Grande gli esploratori italiani del 58° Fanteria, il Bettega restava incrodato, sì da non poter procedere che con l’aiuto d’un riflettore che da lontano guidava gli ardimentosi. Per evitare i tiri nemici il riflettore dovette essere spento per oltre mezz’ora inchiodando nel buio il Bettega che si trovava in una posizione falsa coi nervi contorti in uno spasimo atroce, e che uscì dall’eroica avventura con una gamba inservibile.
Da allora la guida insuperabile dovette rinunciare alle audaci ascensioni sulle vette, alle quali ripensava con grande nostalgia. Il suo amore per la montagna, come per tutte le cose irrimediabilmente contese, s’ingigantì. Fu l’istruttore di tutte le guide di Fiera di Primiero. Un inglese lo chiamò in Inghilterra per istruirvi delle guide del luogo, ove rimase un anno. Re Alberto del Belgio lo volle sua guida per la Svizzera. Guido Rey lo ricorda in uno dei suoi libri glorificanti la montagna.

Una delle sue glorie maggiori era il ricordare che la SAT nacque quando egli era giù guida da dieci anni, e che la prima ascensione sociale fu guidata da lui, al Cimon dalla Pala, dal Ghiacciaio della Vezzana. Egli ripeté 22 volte quell’ascensione, che ben pochi hanno potuto compiere. Il Bettega conosceva tutte le imprese della patriottica Società, per averle vissute con cuore d’irredento e ha lasciato quattro libri di diari delle sue fatiche, di impressioni e di frasi di ammirativa riconoscenza da parte di numerose personalità, in dono alla SAT che giustamente ritenne quale migliore depositaria della sua eredità spirituale.
Martello di Bortolo Zagonel utilizzato nel 1901 per la scalata della parete Sud della Marmolada 

LIBRO GUIDA DI MICHELE BETTEGA
MARMOLADA – PARETE SUD
First ascent of the Marmolata by the South (rock) Wall. The ascent was made (with Bortolo Zagonel as 2nd guide) directly from Ombretta Pass, slightly to the east of the culmination of the Pass. The first two thirds of the way in my opinion is the most difficult that I had ever met in the Dolomites, requiring more strength, skill, endurance and courage than anything I know.
The remainder of the ascent would have been easier but for a storm of thunder, hail and snow, which made it more difficult and dangerous.
We were 12 hours on the rocks, descending by the Glacier to Fedaia, the last few hours were a test of endurance so we were all wet through on a high and very cold wind.
Bettega led for the first two thirds of the way and excelled even himself in every way, conquering apparently insuperable difficulties with this usual – unfailing -  courage and skill.

Beatrice Tomasson

“Prima ascensione della parete sud (di roccia) della Marmolada. La salita è stata compiuta (con Bortolo Zagonèl come seconda guida) direttamente dal Passo Ombretta, leggermente sulla destra rispetto alla sommità del passo. Secondo me i primi due terzi della salita sono il tratto più difficile che io abbia trovato in Dolomiti, in quanto richiedono più forza, abilità, costanza e coraggio di qualsiasi altra salita io conosca. Il resto dell’ascensione sarebbe stato più facile se non fosse scoppiata una bufera con fulmini, grandine e neve, che lo rese più difficile e pericoloso.
Rimanemmo 12 ore sulla roccia, discendendo per il ghiacciaio fino alla Fedaia; le ultime poche ore furono una vera prova di resistenza perché eravamo tutti fradici e schiaffeggiati da un vento forte e molto freddo.
Bettega stette in testa per due terzi della salita e fu veramente ottimo sotto ogni aspetto, perché seppe superare difficoltà apparentemente insormontabili con il solito immancabile coraggio e la sua abilità”.
Beatrice Tomasson
Michele Bettega


Libretto di Michele Bettega