sabato 7 ottobre 2017

ROCCA SBARUA E MONTE TRE DENTI




di Gian Piero Motti
La necessità di avere delle buone guide anche per le palestre, si è fatta notevolmente sentire in questi ultimi anni. La funzione importante che assume la palestra nell’alpinismo moderno è ormai palese ed unanimemente riconosciuta. Il terreno della palestra permette di mantenere un allenamento fisico e tecnico per tutta la durata dell’anno, permette di acquisire e di sperimentare nuove tecniche di arrampicata, permette in definitiva di arrampicare anche quando le condizioni dell’alta e media montagna sono proibitive.
Tuttavia la palestra crea anche degli svantaggi piuttosto notevoli. La possibilità di percorrere per decine di volte le stesse vie e gli stessi passaggi, può portare ad una sopravvalutazione di se stessi, con una conseguente affermazione di una ideologia del tutto particolare, quanto mai dannosa.
La palestra diviene “il fine” e non più “il mezzo”, il banco di scuola su cui imparare a leggere e a scrivere. Si giunge al culto dell’IO, al reuccio domenicale che volteggia con leggiadria su tetti e strapiombi, in un intricato gioco di corde e di staffe.
La possibilità di ripetere ogni passaggio un numero infinito di volte, la conoscenza particolareggiatissima di ogni minima struttura della parete permettono di acquisire sempre maggior sicurezza, con un conseguente disprezzo per la montagna facile e con la convinzione che l’alpinismo altro non sia se non un modo di mettere in pratica su più larga scala quelle esercitazioni più adatte ad una palestra ginnica che ad una montagna.
Soprattutto fra i giovanissimi la palestra può assumere un fascino particolare, date le eccitanti sensazioni che possono ricavarne; così ci limitano ed esauriscono la loro attività esclusivamente in palestra, tralasciando e disprezzando altre importantissime e meravigliose attività, quale ad esempio lo sci-alpinismo.


Si giunge al punto di trascurare l’arrampicata libera e ci si butta subito sull’artificiale, dove è più facile ottenere risultati vistosi; e questo forse è il danno più grave che viene dalla “ideologia della palestra”. Ne deriva la conseguenza che alcuni giovanissimi in brevissimo tempo sono in grado di percorrere con apparente dimestichezza itinerari in arrampicata esclusivamente in artificiale, mentre sono rimasti ai primi rudimenti dell’arrampicata libera, che è fondamentale.
I risultati non tardano a farsi vedere. Recentemente, proprio alla Rocca Sbarua e ai Denti di Cumiana, alcuni passaggi in arrampicata libera di media difficoltà (IV, V) sono stati rovinati e sviliti con l’infissione di numerosi chiodi ad espansione. La scusa apportata in difesa di questa, che io definisco brutalizzazione dell’arrampicata libera, è (sic!) di rendere più sicuri i passaggi e l’assicurazione.
La difesa è per lo meno ridicola, in quanto tutti i passaggi si prestano all’infissione di chiodi normali; diciamo piuttosto che qualche staffista di chiara fama, trovatosi di fronte ad un modesto quarto superiore o peggio terzo superiore e non avendo la possibilità di chiodare, ha impugnato il perforatore e da buon manovale ha cominciato a sforacchiare la roccia, facendo violenza allo spirito dell’alpinismo e a se stesso.
E’ vero, il discorso porterebbe troppo lontano e qualcuno potrebbe obiettare che l’alpinismo è una attività impostata alla massima libertà. Certo, ma anche in palestra chi si accinge ad affrontare un passaggio o una via deve essere in grado di farlo senza ricorrere a questi meschini mezzucci. Altrimenti la deleteria abitudine si diffonderà anche in montagna e purtroppo gli esempi non mancano. La base deve essere sempre l’arrampicata libera, spinta ai limiti estremi prima che sia lecito infiggere chiodi ed usare staffe. Ma forse i tempi cambiano; l’arrampicatore pinerolese Luigi Bianciotto superava la prima lunghezza di corda dello spigolo, che ora porta il suo nome, senza usare un solo chiodo; oggi non è raro vedere lo stesso passaggio superato con abbondante uso di chiodi e di staffe. E questo solo per citare un esempio.
Lascio questo discorso forse spinoso, ma necessario, e torno alle nostre palestre. Ultimamente alcuni amici mi hanno convinto ad assumermi la presunzione di scrivere questa guida della Rocca Sbarua e dei Denti di Cumiana; ho accettato volentieri, in quanto la zona è meritevole di una guida e soprattutto perché di anno in anno vede aumentare notevolmente il numero dei frequentatori. Quindi le pubblicazioni precedenti non soddisfano più allo scopo e tanto meno si rendono utili le vaghe indicazioni di qualche amico o le sporadiche relazione tecniche che raramente appaiono su qualche pubblicazione sezionale.
La Rocca Sbarua è forse la palestra preferita dai torinesi; non parliamo poi dei pinerolesi, che addirittura ce l’hanno sulla porta di casa.
Numerosi sono i fattori che hanno contribuito a questa preferenza: il comodo accesso, la favorevole esposizione, la magnifica e ottima roccia, la possibilità di aprire e di percorrere itinerari che abbracciano tutta la scala delle difficoltà, etc.


Per trovare le prime notizie alpinistiche sicure a riguardo della Sbarua, dobbiamo risalire fino al lontano 1927; nel diario alpinistico del compianto e valoroso alpinista pinerolese Ettore Ellena, troviamo le prime notizie di ascensioni a scopo di allenamento su roccia agli speroni del Monte Freidour. A fianco di Ellena cominciarono a frequentare la zona alcuni alpinisti pinerolesi: Dassano, De Servienti, Borgna ed altri. Ad essi si deve forse la prima salita della via normale.
Frattanto la voce si diffonde anche nell’ambiente torinese, che già cominciava ad arrampicare sulle rocce dei Denti di Cumiana. Le “vecchie” palestre come Rocca Sella o Le Lunelle, ormai non soddisfacevano più alle esigenze della fortissima scuola torinese che allora andava sorgendo. C’era la Parete dei Militi, ma era troppo lontana e soprattutto impraticabile in inverno; si scoprirono le Courbassere e il Monte Plu in Val di Lanzo, ma fu proprio la Sbarua ad avere fortuna.
Le sue ruvide placche videro arrampicare i più bei nomi di quel periodo glorioso dell’alpinismo torinese: Boccalatte, Gervasutti, Riviero, Ravelli, Ronco, Zanetti, e l’elenco potrebbe continuare. Le loro vie, ancora oggi, sono modelli insuperati di logica e di eleganza.
A poco a poco, dopo i tristi ed irreparabili lutti dell’ambiente torinese, nuovi nomi vengono alla ribalta; l’arrampicata artificiale va sempre più affermandosi e permette di risolvere i “grandi problemi” della Rocca.
La Sbarua diventa la palestra abituale di Mellano, Rabbi, Rossi, Ribetti, Mai, Prato, Barbi, Risso. Su tutti spicca la personalità di Guido Rossa, che validamente coadiuvato dai suoi compagni, attacca e risolve i problemi ancora insoluti.
Assistiamo ad una vera e propria rinascenza dell’alpinismo torinese.
Cede la Torre del Bimbo, cede lo spigolo centrale ma la liscia ed imponente parete giallastra che caratterizza la Rocca, sembra resistere a tutti gli assalti; forse erano stati proprio i suoi strapiombi a “sbarùè” (spaventare) i primi salitori della Rocca, cosicchè restò il nome “Rocca Sbarùa”.
Umberto Prato attacca nel settore destro della parete, supera il tratto più difficile, ma non esce in vetta. La sua via sarà ripresa e conclusa ai giorni nostri da Paolo Armando e Fredino Marengo.
Guido Rossa attacca al centro, con Corradino Rabbi e giunge fin sotto il grande tetto sopra i lisci ed enormi placconi giallastri; tenta di aggirare il tetto a destra, ma non vi riesce. I due sono costretti ad una rocambolesca ritirata lungo la parete.

Rossa ritenta con Alberto Risso e con Franco Ribetti, ma solo con Ottavio Bastrenta riuscirà a concludere la via, che ancora oggi è l’itinerario esteticamente più bello di tutto il gruppo. Per superare alcuni tratti assolutamente lisci fanno uso di chiodi ad espansione allo stato abortivo, ossia di tondini e di bulloni infissi in un foro praticato nella roccia. E’ la prima volta che accade nelle palestre torinesi e l’esempio darà i suoi frutti, buoni e cattivi.
Oggi la possibilità di aprire nuovi tracciati va a poco a poco estinguendosi e siamo prossimi alla saturazione. Forse l’ultimo problema suggerito dalla logica viene risolto da Gian Carlo Grassi e da Gian Piero Motti con il superamento della parete sud del Torrione Grigio.
Alcuni cominciano a rivolgere le loro attenzioni a nuove palestre che possano offrire terreno vergine alla loro azione; viene così scoperta la palestra “moderna” del Bec di Mea in Val di Lanzo e viene riscoperto il Monte Plu.
Nelle mie scorribande festive e feriali ho percorso un po’ tutte le vie della Sbarua e dei Denti e ho accumulato una discreta esperienza, che mi ha indotto a scrivere questa guida.

martedì 27 giugno 2017

PREALPI LOMBARDE


INTRODUZIONE
di Alessandro Spinelli

I libri, come tutti noi, hanno una storia. E la storia di questo libro parte da lontano, ben centoquarant’anni fa, per attraversare tre importanti anniversari; anzi, quasi quattro. Corre l’anno 1877 quando quella che è probabilmente la prima guida alpinistica italiana, la Guida alle Prealpi Bergamasche di Antonio Curò, vede la luce. Nella bella introduzione, Antonio Stoppani ben evidenzia l’utilità di un itinerario (leggi: guida) affidabile o – se preferite – i problemi legati alla sua mancanza:

Bisognerebbe che tu avessi un maggior numero di capelli bianchi che di neri o di biondi, per cui potesi dire com’altri d’aver dovuto, venti o trent’anni or sono, percorrere queste vallate, arrampicarti su quei gioghi solitari, per apprezzare il valore di un itinerario, il quale ha per lo meno il merito di essere il primo. Quante volte quel tale ch’io non nomino, dopo aver viaggiato le ore promesse dal primo montanaro che incontrava per via, trovassi più di prima lontano dalla meta. Più di una volta gli accadde, affidandosi alle indicazioni di gente la quale, come in genere i montanari, non ha misura né di tempo né di spazio, vide imbrunirsi l’aria tra deserti di rupi, e dovette benedire il lugubre ululato del cane se poté trovarsi nel più fitto della notte alla porta di una stamberga.

Il volumetto si dilunga nella descrizione degli accessi al fondovalle, tra “ruotabili”, “sentieri mulattieri” e tratti da percorrere “anche con cavalcatura”, ma si anima degli itinerari di salita alle cime tra Adda e Oglio lungo quelle che diventeranno le vie normali.
Passano sessant’anni e l’alpinismo si ritrova cresciuto. Nel 1937 è in vendita al prezzo di lire 20 (per i soci CAI) la guida delle Grigne, quarto volume della celeberrima seconda serie della Guida dei Monti d’Italia, autore Silvio Saglio. Nelle quasi trecento pagine dedicate alla parte alpinistica trovano posto circa centocinquanta vie di salita, accanto alle facili ascensioni. La disposizione della materia, definita dalla apposita Commissione del CAI e che costituirà la falsariga delle guide alpinistiche successive, si dipana con rigore enciclopedico: parte generale con informazioni che spaziano dall’economia della zona ai rifugi e parte alpinistica con descrizione, tempo stimato e difficoltà di tutte le vie che solcano le pareti.
Sempre Saglio, nel 1948, firma il decimo volume della Guida Monti d’Italia, sulle Prealpi Comasche, Varesine, Bergamasche. La guida consta di più di centoventi itinerari alpinistici nella zona di nostro interesse ed è frutto di una gestazione alquanto complessa che, iniziata nel 1934 ed interrotta dal periodo bellico, porterà ad escludere dal volume le Prealpi Bresciane e la fascia delle Alpi di confine con la Valtellina, per motivi di spazio e di relativo costo (che alla fine risulterà di 640 lire per la rilegatura in tela). Se le Prealpi Bresciane dovranno attendere il nuovo secolo per prendere posto nella collana, le Alpi Orobie sono destinatarie del volume pubblicato esattamente sessant’anni or sono, nel 1957; volume oggi piuttosto ricercato (ma all’epoca in vendita a 2500 lire) ancorché non esente da difetti, essendo basato sostanzialmente sulla bozza del 1938: salite non aggiornate, indicazioni di difficoltà assenti o sommarie.
Nel 140°, 80°, 69° (accidenti!) e 60° anniversario, queste guide si vogliono qui ricordare per il caldo amore non più superato onde sono pervase (A. Corti nella guida delle Orobie, p. 184). Tuttavia, se lo scopo del vostro odierno compulsare non è solo il ricercar salite ormai neglette o dare una paternità a quei chiodi oggi sempre meno visitati, se pensate come Stoppani che queste montagne, belle a vedersi da lontano, sono più belle a percorrersi e legittimamente cercate una fonte attendibile a cui votarvi, dobbiamo ammettere che il panorama è quantomeno frammentario: solo la zona delle Grigne gode di buona salute letteraria, mentre le valli bresciane possono vantare un volume della Guida Monti d’Italia del 2004 e le Orobie mai hanno avuto una guida alpinistica aggiornata. Pubblicazioni a carattere locale ed il web suppliscono dove possono, con i loro pregi e limiti.
Il corrente volume si propone di colmare cotal lacuna, in ideale continuità con le amate guide che lo hanno preceduto, ma con un’impostazione più attuale: il contenuto è squisitamente alpinistico, limitando le informazioni addizionali allo stretto necessario per l’orientamento ed evitando l’aneddotica, assai problematica in una zona così ampia. Inoltre, seguendo una linea editoriale già rintracciabile nelle guide degli anni ’70, si presenta qui una (ricchissima) selezione di itinerari, scelta obbligata sia per l’impossibilità di contenere tutte le linee di salita in un unico volume, sia perché alcune vie rivestono oggi un interesse puramente storico e non sono più frequentate. Il risultato è sotto i vostri occhi: trecentocinquanta itinerari dove il chiodo convive con il fix e su cui relazione, schizzo e fotografia conducono il lettore per mano, alla riscoperta delle “nostre” montagne. Ché patria nostra (come dice l’abate) sono le montagne.


RINGRAZIAMENTI

Redigere una guida monografica è un lavoro molto complesso. Molto più facile sarebbe confezionare una selezione di salite scelte. Qualora si voglia relazionare alla perfezione un luogo, piccolo o grande che sia, è fondamentale costruire relazioni con altre persone: apritori, rifugisti o semplicemente ripetitori che come me hanno vissuto un’intensa storia d’amore con una vetta, una parete o semplicemente una linea.
È un lavoraccio anche nell’era di Facebook e dei cellulari, ma quando si giunge alla fine del lavoro, ci si rende conto che la guida non è un più il fine ma il mezzo per far nascere e costruire nuove amicizie.
Chiunque ho interpellato per avere informazioni mi ha dato più di quello che cercavo. Dire grazie a ciascuno di loro è quanto mai importante. Per questioni di spazio mi è impossibile ringraziare ogni singola persona ma non posso non spendere qualche parola in più per: Luca Galbiati, oltre che essere il cofondatore di sassbaloss.com è il mio storico compagno di cordata. Con lui ho percorso metri e metri di corda condividendo sogni, pareti e avventure in giro per mondo. Luca potrebbe essere considerato a tutti gli effetti il co-autore di questa pubblicazione perché buona fetta degli itinerari qui presentati sono stati da lui percorsi in cordata con Claudia, sua moglie. Grazie di cuore per tutto.
Grazie ad Alessandro Spinelli, che è stato compagno di cordata in oltre 150 vie. L’affiatamento che abbiamo raggiunto in parete è notevole e ci ha permesso, in questi anni, di condividere tante belle salite. L’introduzione che ha scritto per questo volume è la testimonianza del suo amore per queste montagne. Da qualche anno ha aperto un blog che merita di essere seguito: alessandrospinelli66.blogspot.it.
Grazie ad Andrea Gaddi per aver insistito, per ben 3 volte, perché accettassi di redigere questa guida. All’inizio le incertezze erano molte e la voglia di interrompere il lavoro spesso si è materializzata in questi ultimi mesi. Andrea ha saputo spronarmi nel modo corretto.
Grazie ai miei genitori, Francesco ed Elisabetta e a mio fratello Andrea. Loro sono la mia famiglia e negli ultimi anni ho (finalmente) preso coscienza di quanto siano importanti nella mia vita. La montagna difficilmente incrocia le loro giornate ma il supporto e l’incoraggiamento a questo lavoro non è mai mancato.

Grazie a:
Giangi Angeloni, Luigi Baratelli, Mafalda Bortolotti, Sandra Bottanelli, Alfio Brugnoli, Omar Brumana, Pietro Buzzoni, Marco Capretta, Anita Cason, Matteo Cattaneo, Michele Cisana, Valentino Cividini, Stefano Codazzi, Michele Confalonieri, Carlo Cortinovis, Alberto Damioli, Romele Facchinetti, Ivan Facheris, Claudia Farruggia, Ivo Ferrari, Raffaele Ferrari, Diego Filippi, Massimo Fogazzi, Francesco Fusi, Rubens Gallizioli, Emanuele Gerli, Marco Gnaccarini, Paolo Grisa, Mattia Imberti, Giacomino Longhi, Guglielmo Losio, Ivan Maghella, GianMaria Mandelli, Davide Martini, Luca Mich, Francesco Milani Capialbi, Riccardo Mulazzani, Giovanni Noris Chiorda, Maurizio Panseri, Simone Parietti, Diego Pezzoli, Walter Polidori, Ambrogio Riva, Simone Rossin, Tommaso Rubbi, Ennio Spiranelli, Marco Taboni, Cristian Trovesi, Fabio Stabilini, Francesco Vascellari, Fulvio Zanetti, Paolo Zanga, Emiliano Zorzi, Istruttori della Scuola di Alpinismo Scialpinismo e Arrampicata Libera Valle Seriana.

martedì 23 maggio 2017

ARRAMPICARE - DOLOMITI NORD ORIENTALI

Ed ecco ultimato il nostro terzo lavoro sulle Dolomiti. 
Grazie ad Alessandro Gogna per l'introduzione che accompagna il nostro lavoro.




A volte si è in difficoltà. Perfino uno come me, con una biblioteca considerevole, può trovarsi in difficoltà.
Dice: ma oggi in internet trovi tutto, basta digitare la parola…
Ne siete sicuri? Non credo sia così semplice quando ti trovi con uno o più amici, vi siete alzati tardi e dovete scegliere dove andare a scalare.
E’ difficile che internet ti suggerisca ciò che non gli chiedi: se non digiti quel nome, quella via non apparirà. E comunque la ricerca può essere complicata e richiedere parecchio tempo.
Ecco allora che le guide stampate, sì quelle d’una volta, salvano la situazione. Se ti ricordi te le porti dietro, se non le hai le puoi comprare vedendole in vetrina o negli scaffali delle librerie. Magari c’è l’amico che te le può prestare.
Dolomiti nord-orientali, di Matteo Bertolotti, Luca Galbiati e Francesco Vascellari, è l’ultima nata di una lunga serie di selezioni: quel territorio è già stato descritto, da Antonio Berti in poi, decine di volte e da autori diversi. Proprio per questo mi affascina scoprire, guardando l’indice della guida, quale criterio di scelta gli autori abbiano usato.
Sappiamo che gli autori adottano criteri strettamente dipendenti dal loro gusto estetico, dalla loro esperienza e conoscenza, dalla loro cognizione storica, dalla necessità di avere una consistente gamma di ogni difficoltà e dalle contingenze legate alle vie, che possono essere del tutto sconosciute (poco o mai trattate), nuove (e quindi ancora nella ristretta cerchia di qualche eletto) oppure classiche (quindi così note da non poter mancare nella lista). In questi 67 itinerari ci sono davvero estetica, esperienza, storia e concessione al classico nelle giuste misure.
Tra i gruppi più frequentati, tralasciando le Cinque Torri, comodo luogo di vie brevi da mattine o pomeriggi incerti, prendiamo ad esempio Lavaredo e Tofane. Il gruppo delle Lavaredo è quanto di più noto ci sia. Delle nove vie presentate cinque sono le famosissime Cassin alla Ovest e alla Piccolissima, la Preuss (sempre sulla Piccolissima), la frequentata Dibona alla Cima Grande, l’iperestetico Spigolo Giallo di Comici alla Piccola. Ottima l’idea di aggiungere la Dülfer alla Cima Grande, senz’altro meno nota ma molto meritevole e storica, come pure la via delle Guide alla Piccola, una volta assai frequentata e oggi un po’ (inspiegabilmente) dimenticata. Chiudono la lista trionfalmente la Comici alla Punta Frida (una delle vie più trascurate del grande triestino) e la Sidi-Bosotti-Lorenzini alla Piramide (riguardo alla quale posso confessare la mia più assoluta ignoranza, non solo della via ma anche della montagna). Sono le ultime tre quelle che io non ho mai salito, dunque una buona media, per un gruppo come Lavaredo.
Passando alle Tofane, c’è una scelta di sei vie. Ci sono le immancabili Costantini-Apollonio al Pilastro e Alverà-Pompanin al Primo Spigolo. Ma poi ecco la Costantini-Ghedina all’elegantissimo Secondo Spigolo, la notevole Alverà-Pompanin al Terzo Spigolo e la per me quasi misteriosa Ghedina-Monti-Zardini al Castelletto. Chiude la lista il grande nome di Bonatti che nel 1952 con Pietro Contini salì la via Tridentina: una via che solo di recente è stata rivalutata per la sua bellezza, complice la scomparsa di Walter.
La guida giunge a proporre anche itinerari nelle Dolomiti d’Oltrepiave e delle Alpi Carniche, fino a mettere il naso pure nelle Dolomiti di Lienz, tanto belle quanto pochissimo battute dagli italiani.
Lo schema di esposizione degli itinerari, modernamente illustrati da fotografie e tracciato, è abbastanza classico: una breve descrizione della montagna (che talvolta secondo me avrebbe potuto essere un po’ più esplicativa, ma evidentemente lo spazio era tiranno) precede un’esauriente descrizione, tiro per tiro, della salita e della discesa. Un piccolo box iniziale racchiude, a scheda, i dati numerici ed essenziali della via.
Dolomiti nord-orientali è l’ultima nata di una serie dedicata a queste montagne dall’editore Vividolomiti: il successo delle precedenti Dolomiti nord-occidentali e Dolomiti sud-occidentali fa prevedere con quanto entusiasmo anche quest’ultima sarà accolta. Degna continuazione di un grande lavoro, che si concluderà con una prevista Dolomiti sud-orientali.

Alessandro Gogna