venerdì 10 dicembre 2010

VAL DI SUSA



Ecco qualche fotografia del bellissimo weekend settimanale di Sant'Ambrogio/Immacolata.
Compagno d'avventure... Raffo!
Giorni stupendi... mentre in lombardia si scatenava l'inferno!
Buona Visione

mercoledì 10 novembre 2010

RIFLESSIONI

Tornando dal lavoro milanese mi sono scontrato in questo paragrafo scritto da Alessandro Gogna e Italo Zandonella Callegher e contenuto nel libro LA VERITA' OBLIQUA DI SEVERINO CASARA.

Penso che queste poche righe possano essere esportate alla vita quotidiana.
Buona riflessione.

Matteo.


Letterature e film sono i modi moderni per raccontare ciò che una volta faceva il poema epico. In letterature e film siamo disposti ad accettare qualunque fantasia, anche la più sfrenata, dal pornografico al serial-killer, dal surreale al fantascintifico, alla condizione però che l'autore metta bene in chiaro che si tratta di opera d'invenzione. Ciò che non sopportiamo èl'accostamento tra fantasia e verità, come se questa commistione fosse il peccato più grande, il verò tabù di oggi. Non siamo più gli incantati ascoltatori dell'aedo che cantava l'Odissea o l'Illiade, dove realtà e fantasia erano una sola cosa: commenti storici, chiose ed esegesi ci hanno insegnato a dividerle. Non sopportiamo chi non vive dentro di sé questa opposizione precisa, ma osanniamo Roberto Benigni che recita così magistralmente la Divina Commedia da sfondare gli indici di gradimento. Perchè tutti abbiamo ancora bisogno della favola grandiosa, dell'opera d'arte che ci nutre di serenità ma è maturata nella sofferenza dell'azione.Si, è vero. Abbiamo ancora bisogno della favola, forse della finzione. Se ci pugna attribuirla a noi stessi (ma non faremmo male), non esitiamo ad attribuirla agli altri inventando fatti e aneddoti sul loro conto, seguendo gli stessi percorsi tortuosi della leggenda ma immiserendoli con la bava viscida di calunnie consapevoli o inconsapevoli. Anche se lo si fa per scherzo, è una delle peggiori violenze, ripugnante anche per l'insita codardia. Se riusciamo in un minimo di autocritica, riguardando indietro negli anni, c'è un aspetto per cui non si tornerebbe indietro volentieri e questo riguarda le mille chiacchiere scambiate con gli amici, nella sezione del CAI, al bar, in rifugio, a volte in bivacco. Non tutto era da buttare, anzi. Ma spesso c'era chi si vantava più di altri, chi raccontava non per il piacere di farlo ma per stupire o far ridere a tutti i costi. Qualcuno era più crudele di altri. E poi c'era la vittima, sempre assente, a volte perfino deceduta: colui che, consapevole o non, pagava il conto delle risate della compagnia.Si, non si tornerebbe indietro per tali bravate verbali: e possiamo pentircene. Ciascuno di noi può guardarsi indietro e ricordarsi di episodi che non gli fanno onore. Se non se ne ricorda è un fortunato, perchè nulla può scalfire le sue certezze. Fortunato per ora, perchè a lui ancora più grave sarà l'incertezza della fine.

venerdì 3 settembre 2010

IL VIAGGIO

Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione.
Quando il viaggiatore si è seduto sulla spiaggia della sabbia e ha detto: “Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito.

Josè Saramango

lunedì 23 agosto 2010

SPIGOLO VINCI AL CENGALO

Due anni fa ero salito al Rifugio Gianetti per tentare di salire lo spigolo Vinci al Cengalo. Ero con Luca, Claudia e Fabio. L'idea era quella di compiere la salita integrale della via, ovvero con quella parte bassa che oggi non viene più ripetuta.
Raggiungemmo l'attacco utilizzato oggi che era già pomeriggio inoltrato così decidemmo di rientrare.
Questo weekend sono tornato al Gianetti con Andrea, Tiziana ed Enrico. Domenica abbiamo salito la parte alta dello Spigolo. Una via molto bella che merita senz'altro una ripetizione.
Grazie all'intuizione di Enrico abbiamo lasciato il rifugio alle 5.45 senza far colazione attaccando così per primi la via!
Gran bella giornata.

giovedì 12 agosto 2010

PALE DI SAN MARTINO

Lo scorso weekend sono stato con Luca Bono ad arrampicare nelle Pale di San Martino, l'angolo più bello delle dolomiti. Era la prima volta che arrampicavamo insieme così abbiamo scelto delle arrampicatine easy.
Qui di seguito metto qualche fotografia... premettendo che l'ordine è casuale... un po' per lazzaronismo un po' per non schematizzare troppo la vita.
E' stato un bel weekend e questo è l'unica cosa importante.
VIA GIULIANA con variante d'uscita alla PUNTA DELLA DISPERAZIONE
SPIGOLO CASTIGLIOLI alla CIMA DI RODA.


martedì 10 agosto 2010

L'INVINCIBILE

di William Earnest Henley

Dal profondo della notte che mi avvolge
nera come il più profondo abisso, da un polo all'altro,
io ringrazio quali che siano gli dèi
per la mia anima invincibile.
Nella morsa delle circostanze,
non mi sono tirato indietro, né ho gridato a squarciagola:
sotto i colpi di maglio della sorte
il mio capo sanguina, ma non si china.
Oltre questo lido di ira e lacrime
Non giace altro che l'Orrore dell'ombra,
E tuttavia la minaccia degli anni
Mi trova e mi troverà senza timore.
Non conta quanto sia stretta la porta,
quanto sia piena di castighi la vita.
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.

giovedì 5 agosto 2010

CAMPANILE BASSO

Recentemente sono ritornato sulla vetta del Campanile Basso nelle Dolomiti di Brenta. Abbiamo raggiunto la vetta mediante lo spigolo Fox. Una delle vie più belle che abbia mai ripetuto.

Ora leggiucchiando un libro sulla storia di questa bellissima montagna ho trovato qualche episodio decisamente fantastico e poetico al tempo stesso.

Dal libro "Il Campanile Basso - Storia di una montagna" di Marino Stenico e Gino Callin:
Il 7 agosto del 1937 è un'altra data storica per il Campanile Basso. Entra in scena infatti un forte alpinista roveretano: Pino Fox. Si trova al Rifugio Pedrotti con alcuni valenti alpinisti trentini: Rizieri Costazza, Alessandro Disertori e Luigi Golser. Decidono assieme di salire il Campanile Basso lungo l'inviolato spigolo sud-est. Fox non si apprestava certo per la prima volta al bel campanile. Aveva percorso e ripercorso molte vie di salita, dalla "normale", alla "Fehrmann", alla "Preuss". Già, poiché il "Basso" egli dice "era il sogno di tutti gli alpinisti di allora". Con Bruno Detassis aveva parlato più volte di quello spigolo: la loro conclusione era stata una sola: "Una salita di eccezionale bellezza". E Fox aveva tutte le carte in regola per tentarla. Alla base del campanile ci fu qualcuno che cominciò a nicchiare, evidentemente non troppo convinto dell'idea di avventurarsi su quell'affilato spigolo. Fox però mise subito fine alla discussione con un tono che non ammetteva replica: "Si va e basta!". Nessuno più fiatò e i quattro, Fox in testa, iniziarono l'arrampicata superando i duecento metri di salita con nove chiodi. Il principale protagonista riservò all'impresa un commento quanto mai lapidario: "Difficili soprattutto i primi quaranta metri, ma poi la parete diventa sempre più accessibile pur richiedendo una certa capacità di equilibrio..."- L'ascensione comunque è valutata di quinto grado superiore. Il giudizio espresso da Fox mette in luce la modestia di questo alpinista le cui capacità sono evidenziate da un brillante curriculum in cui fanno spicco ascensioni come la Punta Iolanda con Friederichsen e Cottafari, la parete sud-est della Cima d'Ambiez con Marino Stenico, un'arrampicata di 10 ore definita "eccezionale per eleganza ed arditezza" da Castiglioni, la Cima Rocchetta nelle Alpi di Ledro, ancora con Stenico. una salita con le rocce a strapiombo sul lago di Garda che Fox ritenne "la più difficile della sua vita".
[...]
Due imprese di Giorgio Graffer meritano il loro posto d'onore nella storia del Campanile Basso: la prima ascensione direttissima per lo spigolo nord il 24 agosto del 1933 e la prima ascensione dello spigolo sud-ovest dello Spallone, nel 1934. La prima salita la compì con la sorella, la seconda con Antonio Miotto. Vi è un episodio che bene esprime le difficoltà estreme di quest'ultima ascensione. Giorgio Graffer, si sapeva, usava arrampicare scalzo sui tratti di parete più difficile. Parlando con Renzo Videsott gli scappò detto che solo sullo Spallone aveva arrampicato scalzo per più tratti. "Ma allora è di sesto, si o no?" "Ricordo solo che è stata specialmente dura!" "Ma sulla Solleder della Civetta ti sei tolto le pedule?" "No, non c'è stato bisogno." "Ma allora, il Basso dallo Spallone è di sesto grado!" "Se proprio vuoi sarà di sesto..." Sullo stile di Giorgio Graffer in arrampicata vale quanto scrisse di lui Marcello Pilati: "Vedo due dita ferree raggrinzirsi sulla roccia, distendersi lentamente, lasciare l'appiglio, trovarne un altro, accarezzandolo quasi dapprima, poi aggredendolo forti e tenaci." E ancora: "Giorgio si raggomitola sotto lo strapiombo, allarga le gambe a compasso, si distende lentissimamente, senza strappi."

venerdì 23 luglio 2010

ECLIPSE - THE TWILIGHT SAGA

da una recensione del film ECLIPSE:
[...] questo Eclipse gira molto attorno a Jacob, il giovane licantropo, un personaggio scritto con acume. Quando entra in scena a torso nudo la platea esplode in un boato. Un boato da stadio a voce mista (maschi e femmine). I maschi ci si possono identificare doppiamente: da una parte è quello che vorrebbero essere (un tizio straordinario con un fisico pazzesco), dall'altra è quello che spesso sono (uno sfigato ordinario continuamente respinto dalla bella del liceo).[...]
Mauro Gervasini dalla rivista FilmTv.

mercoledì 16 giugno 2010

CANNA D'ORGANO

Ricordando il grande Bruno Detassis mi è venuta voglia di rileggere quanto scritto in merito all'apertura della via Canna d'Organo ad Arco di Trento! Chissà se un giorno metterò mano su quella via...


Calcare e arsura: la valle del Sarca
“A Trento, nell’ambiente alpinistico, sentivo parlare della Canna d’Organo sul Dain, sopra il lago di Toblino. Sapevo che era già stata tentata”.
Se voi seguite la strada che porta a Sarche costeggiando il lago di Toblino, non potete far a meno di alzare lo sguardo e osservare questa magnifica struttura rocciosa che costituisce l’estremità meridionale del Piccolo Dain. Bruno cominciò la sua avventura insieme all’amico “Riz”, a bordo di una moto sgangherata, che in qualche modo li condusse a Toblino, come racconta pacatamente. “Lasciammo la moto alla casa di sotto, lungo la strada e, in poco tempo siamo andati all’attacco. Dico a Riz: “Prendi la corda e il sacco e intanto vai su per rocce facili dello zoccolo”, mentre mi apparto per qualche momento. Fatti neppure dieci metri, mi chiama e dice “qui non si va più avanti”. Lo raggiungo e ci prepariamo. Arrampichiamo con una certa difficoltà, giungendo dove incomincia per davvero la Canna d’Organo e dove finisce lo zoccolo. Qui troviamo dei chiodi con cordino, premuso dei primi tentativi.
Questo zoccolo, visto dal basso, sembrava facile. Invece è tutto “rovescio”, tutto vegetazione. Attacchiamo il diedro un po’ sporco di polvere, di foglie. Le difficoltà continuano fino a che arriviamo ad una fessura levigata. Alla nostra destra, spostato in una nicchia vediamo un nido formato da grossi rami. Era certamente di qualche rapace.
Superiamo la fessura. E’ già tardi. Non abbiamo più acqua. La sete si fa sentire. Abbiamo arrampicato dalla tarda mattinata fino alla sera, sempre in un caldo soffocante. Decidiamo perciò di bivaccare li. Fino a questo punto ho usato solo chiodi alle soste. Avevamo solo chiodi artigianali, fatti da me, Corrà o Stenico. Fortunati noi, che avevamo un chiodo da ghiaccio, di quelli militari, che mi ero portato dall’Adamello. Penetra sicuro nella roccia fino all’anello e ci dà la sicurezza del bivacco. Il posto è piccolo. Riz sta un po’ seduto e un po’ in piedi. Io sto in piedi tutta la notte, su quell’esile terrazzino. E’ stato un bivacco caldo, ma eravamo tormentati dalla sete e avevamo i crampi alle gambe. All’alba attacchiamo direttamente su una roccia che ha più del mattone che del calcare. Mi alzo circa una decina di metri, piantando tre o quattro chiodi. Ad un certo momento volo. Man mano che volavo, uscivano i chiodi. Il volo veniva rallentato da un chiodo all’altro, perciò Riz arrivava a recuperare la corda. Mi fermo al famoso chiodo dell’Adamello, senza conseguenze. Accendo un toscano, ma dall’arsura alla gola, non lo sento. Mi metto perciò a masticarlo. Ne offro uno anche a Riz che rifiuta. Dico a Riz: “Prova tu a fare questa lunghezza di corda, perché io ho talmente le mani stanche, che credo di non farcela più”. “Se non ce la fai tu, chi ci va su? Io no. Guarda, Bruno, se vuoi io suono l’armonica tutto il tempo che tu superi questo tratto di parete”. Provo di nuovo. Pianto qualche chiodo. Non perdo tempo e alla fine vinco questa parete difficile di roccia insidiosa, friabile per la sua formazione quasi cretosa. Non ci si poteva permettere di restare a lungo sugli appigli. Faccio levare il chiodo dell’Adamello a Riz, pensando che ci occorra ancora. E così, da una corda all’altra, con meno difficoltà di prima, ci troviamo in cima in mezzo alla vegetazione e possiamo prenderci un ben meritato riposo. Scendiamo verso sud, lungo il versante delle Sarche, per non andare verso il paese e fare il giro più lungo. Con qualche corda doppia ci veniamo a trovare su una traccia di sentiero. Arriviamo alla casa dove abbiamo lasciato la motocicletta. C’è una bellissima fontana. Andiamo dentro a rinfrescarci e a pulirci, perché siamo pieni di polvere e di terra. Abbiamo una sete che non ci dà pace, ma non vogliamo bere tanta acqua. Un ragazzino, per pochi spiccioli, ci porta un cestino di uva e fichi.
Questa salita, che ammiravo dalla base credendo fosse circa centocinquanta metri, risultò invece di trecentocinquanta. Abbiamo adoperato al massimo venti chiodi.
“A mio giudizio questa salita con i tratti in libera che ho fatto, dato che la roccia è malsicura e considerato i mezzi che avevamo allora, è certamente l’arrampicata più difficile che io abbia realizzato”.
La Canna d’Organo è un esempio di salita che non si svaluta con il passare del tempo. Tutti i ripetitori affrontano le stesse difficoltà, i chiodi sono pochi e malsicuri, la roccia è friabile.
Il giudizio di Alessandro Gogna, inquadrato in un contesto storico-alpinistico legato agli anni Trenta è significativo: “Con ciò la grande guida trentina non solo superò l’itinerario più difficile della sua carriera ma diede l’inizio, con grande anticipo, a quel movimento che avrebbe portato agli anni Settanta alla valorizzazione alpinistica della Valle del Sarca (1). Detassis, nelle sue interviste non dedicò mai grande spazio al diedro; la via della Canna d’Organo rimase per lui un’esercitazione da palestra, sia pur di estremo impegno. Un exploit che non coinvolgeva quello che Rudatis, proprio quell’anno, aveva chiamato il “sentimento delle vette”. Il “sentimento” di Detassis era altrove, sulle alte e vere cime del Brenta, oppure sulle altre grandi montagne dolomitiche. Eppure, a detta di molti moderni arrampicatori, la Canna d’Organo è una serie continua di passaggi di VI e VI+, con punte di VII- obbligatori, senza chiodi e su roccia friabile. Con questa impresa, veramente memorabile, comincia a calare il grande movimento degli anni Trenta. Essa fu l’ultima genuina impresa di VI superiore, l’ultimo tocco d’artista prima della guerra (2). E’ forse eccessivo parlare di settimo grado, ma è fuori discussione il valore assoluto della via, che la rende forse poco attraente o divertente rispetto ad altre, ma senz’altro più affascinante per chi vuole assaggiare del vero alpinismo in senso pieno e compiere un viaggio a ritroso sulle orme dei primi salitori, annusare un po’ di storia dell’arrampicata di quei magici anni Trenta.


(1) In verità la Canna d’Organo rappresenta la seconda nuova di Bruno Detassis sulle pareti della valle del Sarca. Infatti il 22 ottobre 1935 con Rizieri Costazza e Marino Stenico superò il gran diedro del Monte Casale, una parete alta ben mille metri, con difficoltà di V°+ e passi di VI°. La guida “Vie di roccia e grotte dell’Alto Garda” la definisce “via a tratti estremamente friabile, con passaggi delicatissimi. Pericolo di scariche e pietre. E’ difficile l’uso dei chiodi e di altri mezzi artificiali. Via completamente in libera”. (pagg. 188-190). Assieme a Detassis e Stenico anche alpinisti come Fox, Friederichsen e Miori contribuirono a dare un impulso decisivo all’arrampicata sulle pareti della Valle del Sarca.
(2) Alessandro Gogna, Sentieri Verticali, pag. 104

lunedì 24 maggio 2010

IL SIGARO DI CASSIN



Fra le pareti di questo pozzo, costituite dai Torrioni Magnaghi e dal Sigaro, si incide un lungo canalino verticale. Abbandoniamo qui i sacchi, ci armiamo di martello, chiodi e moschettoni, ci leghiamo con una corda di cinquanta metri, e via. Nel canalino non incontriamo particolari difficoltà e raggiungiamo la forcella dalla quale, con due o tre metri di spaccata, passiamo sul Sigaro.
Sono in testa e, mentre il compagno mi fa sicurezza, mi sposto a destra verso il nostro spigolo fermandomi in corrispondenza di una fessura. La guardo, la giudico: fa per me. La attacco direttamente, piantando tre chiodi che, oltre ad assicurarmi, mi servono per la progressione: d'appigli non c'è abbondanza e la crepa è alquanto strapiombante. Salgo così per sei o sette metri finché la magra fenditura muore sotto una piccola prominenza al cui spigolo mi afferro con entrambe le mani, spostandomi a destra. Mi protendo verso una presa, la tasto, ritorno alla posizione di prima.
“Sta' attento” avverto l'amico, anche se non c'è alcun bisogno di richiamarlo. Dato che la presa mi pare buona, mi allungo delicatamente e l'afferro con forza. Poi mi lascio penzolare sulla parete strapiombante e con mossa decisa raggiungo lo spigolo. […].
Guadagnato lo spigolo m'innalzo con minore difficoltà fino a una stretta mensola dove mi assicuro con un chiodo. Finalmente riposo: i passaggi precedenti mi sono costati non pochi sforzi.
“Vengo?” chiede Sora.
“Aspetta”.
“Come va?” soggiunge.
“La va”.
Durante la scalata le parole, come anche i movimenti, sono ridotte al minimo indispensabile: nulla di meno e nulla di più. Tutto è funzionale. […].
Riparto. Sempre restando sullo spigolo, m'innalzo fino a un secondo comodo pianerottolo, sotto un altro strapiombo. Cerco il punto in cui piantare il chiodo al quale assicurarmi, ma, per quanto osservi e tasti, non lo trovo. Riesco a piantarne uno dove la superficie pianeggiante del ballatoio fa angolo con la roccia, al di là del verticale. Il chiodo entra cantando ed è saldissimo, ma la sua posizione non è delle più indovinate. […].
Ma è tempo di riprendere l'opera. La roccia per un po' sale sporgendo, poi, dopo il labbro del piccolo strapiombo, prende la configurazione di un diedro di dimensioni ridotte, con inclinazione negativa e desolatamente compatto. Non ci sono fessure, né screpolature né buchi: nulla da fare con quella superficie unica. Eppure… provando e riprovando riesco a fissare un chiodo sull'orlo, così decidiamo di tentare la tecnica detta ‘a piramide'. Sora s'aggancia al chiodo del pianerottolo e io, attaccandomi al ferro che ho infisso sull'orlo, mi alzo con un piede appoggiato alla spalla di Sora e l'altro alla roccia. […].
Giungo così all'ultimo serio ostacolo, ma proprio non mi riesce di averne ragione. Le fatiche non indifferenti della giornata, i diversi passaggi d'ordine superiore, la poca esperienza e il rudimentale sistema d'arrampicata ci hanno stremato. Ci sentivamo sicuri di vincere e siamo costretti a desistere. Una simile realtà non ci va a genio. Rimonto sulle spalle dell'amico che sta assicurato al chiodo del ballatoio, ma… niente da fare, quest'oggi. Il Sigaro ci ricaccia.
Partita persa? Per ora si, ma la bella via deve essere nostra e lo sarà se sapremo rinnovare il tentativo. Ci caliamo con in bocca l'amaro sapore della rinuncia e un ardente desiderio di rivincita. A quando?

giovedì 20 maggio 2010

ETTORE CASTIGLIONI

Chi un po' mi conosce sa quanta stima abbia per la cordata Castiglioni/Detassis. Questi due personaggi si legarono in cordata numerossime volte e l'affiatamento che ne derivava fu unico in tutta la storia dell'alpinismo.
Insieme aprirono itinerari difficilissimi un giorno dietro l'altro.Castiglioni fu il primo (e certamente il più importante) autore della collana "Guide Monti d'Italia" del CAI e del Touring Club. Compilò con dovizia 4 numeri... anche se ebbe il tempo di vederne pubblicati solo 2.
Odle/Sella/Marmolada - Pale di San Martino - Dolomiti di Brenta - Alpi Carniche.

Ieri ho trovato in una vecchia libreria di Vercelli (la stessa che era riuscita a procurarmi, sempre della stessa serie, la monografia delle Alpi Orobie) anche l'ultimo volume (Alpi Carniche) che mancava per chiudere il cerchio di Castiglioni.




Lascio, qui di seguito qualche breve passo tratto dai suoi diari.
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Celso diceva che l'essenza dell'alpinismo è il rischio: io non potevo condividere questo suo detto, mi pareva abbassare l'amore per la montagna ad un gioco pazzesco o assurdo, ma forse avevo mal compreso la sua asserzione che in fondo non è lontana dalla mia: l'essenza dell'alpinismo consiste nella conquista metro per metro della propria vita. Dunque in fondo è rischio: ma il rischio non è fine a se stesso, bensì solo la premessa necessaria alla conquista.

L'uomo più forte non è colui che sa dominare il mondo, ma colui che sa dominare se stesso.

Solo tra le montagne l'uomo è grande, franco e onesto: in città anche i migliori individui non sanno difendersi dalle false ideologie borghesi, dall'ipocrisia e dalla corruzione.

"La tua simpatia per l'amico si celi sotto una ruvida scorza, intorno alla quale tu devi logorare i tuoi denti. Così la tua simpatia acquisterà delicatezza e dolcezza". Questa è la vera amicizia: questi sono i rapporti con Vitale e Celso.

Il mio livello massimo è il quinto grado ed è in una salita di quarto e quinto grado che trovo il vero godimento dell'arrampicata. Nelle salite fatte con Manlio, infatti e ancor più con Bramani ho ritrovato il maggior godimento: salite condotte con lo spirito del 1929, con sicurezza assoluta, con perfetta padronanza della tecnica, che mi permetteva di sentirmi completamente a mio agio in qualsiasi passaggio. Solo così si gode l'arrampicata, e questa è fine a se stessa. Fino al quinto grado si arrampica per il godimento di arrampicare: il sesto grado si fa per l'ambizione di superare quella determinata difficoltà. Il vero alpinismo si arresta al quinto grado: e al quinto grado si è arrestato il più grande alpinista Paul Preuss.


lunedì 10 maggio 2010

BUD SPENCER E TERENCE HILL

Cari Bud Spencer e Terence Hill
è da un bel po' di tempo che avevo in mente di scrivervi una lettera
di scuse. Quand'ero giovanotto, tanti anni fa, mi volevo convincere che il cinema doveva essere soprattutto quello che già allora veniva classificato con asterischi e palline distinguendo tra cinema di qualità, una sciocca definizione e l'altro cinema così detto di consumo che mi pare stupidamente presuntuoso.
Adesso, giunta quell'età dove si può stare quietamente sulla sponda del buon senso mi sono fatto l'idea che a salvare il mondo non sarà soltanto la cultura e neppure la bellezza che pure è una piacevolissima opportunità ma che potremo davvero scampare tranquillamente al declino di civiltà se sapremo praticare la strada maestra della gioia.
Gioia come condivisione di sentimenti di pace poichè una bella, raffinata ed onesta risata è anch'essa a pieno titolo opera d'arte, che fa bene allo spirito e alla cultura e anche alla salute.
Sono felice di vedere assegnare il David di Donatello alla carriera 2010 a Bud Spencer e Terence Hill, magnifici attori ed amabilissimi galantuomini, indimenticabili eroi di tante fantastiche avventure di giocosa ironia e sano divertimento. Resteranno per sempre nel nostro affetto e nella storia di un cinema di qualità senza asterischi.

Ermanno Olmi




martedì 4 maggio 2010

DIEDRO MAESTRI

Il miglior modo per descrivere questa impressionante parete e la via che più la caratterizza è quella di riportare alcuni passi scritti da Cesare Maestri e contenuti nel libro "Arrampicare è il mio mestiere":
"[...] Il Dain. Questa parete, perché montagna non si può chiamare, si alza sopra il lago di Toblino. Sul versante est di questo contrafforte, Bruno Detassis aprì nel 1933 un difficile itinerario di sesto grado (la via Canna d'Organo n.d.r.). La parete sud del Dain guarda i tornanti del Limarò e nasce dal greto del torrente Sarca alzandosi per 400 metri. Quattrocento metri di strapiombi, di tetti, di zone d'erba. Una parete da molti giudicata impossibile. La conosco già, in parte, attraverso due miei precedenti tentativi. Il primo, andato a monte per le cattive condizioni atmosferiche, con il sestogradista Settimo Bonvecchio, il secondo con il fiorentino Paolo Melucci, istruttore nazionale del CAI. Anche la seconda volta il tentativo è rimasto tale. Due sono state le cause del ritorno: tre denti strappati per un volo di otto metri e la perdita del sacco contenente viveri e materiale. Anche senza l'incidente dello zaino, non avremmo potuto continuare per il dolore che mi torturava e m'impediva di masticare; per tenermi un po' in forza ero costretto a trangugiare qualche boccone già masticato da Paolo.
Le pareti del Dain terminano nel bosco; questo porta a un pianoro sul quale si trova il piccolo paese di Ranzo.
Io per primo capisco che questa salita non ha nessuna importanza alpinistica e che si riduce a una esibizione puramente acrobatica. La cosa però non m'interessa. E' una parete giudicata impossibile e non mi piace rinunciare alla base dei giudizi che vogliono essere verità assolute. Al mondo la parola impossibile non esiste e voglio dimostrarlo cominciando dal Dain. [...]."
La via fu salita da Cesare Maestri con Claudio Baldessari (capitano degli alpini e comandante del plotone paracadutisti della "Tridentina") nel 1957 rimandendo in parete per 4 giorni facendo grande uso di mezzi artificiali. Durante la salita Cesare Maestri invitò Baldessari a prendere parte alla sua imminente spedizione al Cerro Torre in Patagonia. Baldessari inizialmente accettò ma poi il Ministero della Difesa gli impedì di partire e Cesare Maestri accettò la proposta di Toni Egger.
Per identificare questa elegantissima linea di salita è sufficiente percorrere i tornati che da Sarche salgono verso Madonna di Campiglio.
La via presenta un'arrampicata atletica e faticosa ma decisamente di soddisfazione. Sconsigliata la ripetizione in presenza di altre cordate per il rischio di caduta sassi. Dalle informazioni in nostro possesso pare che la via sia oggi un po' entrata nel dimenticatoio...














venerdì 23 aprile 2010

TIME FOR...

E' da un po' di tempo che sto tralasciando il blog e questo un po' mi dispiace. E' tempo di scrivere qualcosa ma il corso di arrampicata libera che sto seguendo in questo periodo unito alle varie faccende da segretario della scuola valle seriana ed ai miei impegni cinematografici mi stanno tenendo molto occupato.
Nel giro di 15 giorni tutto dovrebbe tornare al tram tram di sempre e dovrei aver più tempo a disposizione per scrivere.
Restate sintonizzati.

martedì 23 marzo 2010

MARIO DELL'ORO - BOGA

E' da tempo che questo strano ed ambiguo personaggio m'attira...

Sono riuscito a trovare un ottimo saggio dedicato interamente alla sua figura ma credo che cercando bene si possa trovare dell'altro...

Non so quanta gente transita da questo piccolo blog... ma se qualcuno trova pezzi di giornale o di riviste... mi avvisa?

lunedì 15 marzo 2010

TORRE VENEZIA



Ecco il video che abbiamo preparato per il Premio Dalla Longa 2010

mercoledì 10 marzo 2010

MONTE COLT - VIA FLAVIA


Questa vietta non troppo lunga si nasconde dietro una ragnatela di spit... La parete del Monte Colt di Arco è ormai una bella lavagna piena di itinerari per me impossibili.
Qualche amante del classico però può ripetere questa via... che regala piacevoli soddisfazioni agli amanti della dolomia.
La vetta si può raggiungere tranquillamente a piedi e regala un bel panorama.

martedì 9 marzo 2010

venerdì 26 febbraio 2010

REGALO DI COMPLEANNO

Queste righe ‘sparse’ che seguono nascono casualmente. Carlo m’invia un suo testo non ancora concluso con la preghiera di leggerlo. M’incuriosisco alla sua storia e proprio mentre la leggo mi sento spettatore dei fatti narrati. Così, quasi per gioco i miei polpastrelli iniziano a battere repentinamente sulla tastiera sino a (ri)scrivere la stessa vicenda con gli occhi di qualcuno che osserva. Le mando al Carlo e lui, preso da non so quale estro, decide di fondere i due testi. Ne esce qualcosa di speciale seppure si tratti di una storia semplice. Storia di uomini e storia di rocce. Storia di sogni che si realizzano e storia quotidiana fatta di piccoli gesti.

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REGALO DI COMPLEANNO

di Matteo Bertolotti e Carlo Piovan - Febbraio 2010

Questa storia inizia in una piccola osteria di paese.
Questa storia racconta di bottiglie che danzano freneticamente con bicchieri sempre vuoti.
Il Carlo ha la meglio su tutti. Le sue storie condite di salsedine son sempre le stesse ma ogni volta che qualcuno lo sente farneticare ne resta affascinato.
La serata scivola via come il vino nella gola e il Carlo con un passo da contrabbandiere scala
frettolosamente l’asfalto per raggiungere la branda dove anche questa notte si farà cullare dai suoi fantasmi.

A volte capitano cose che non si riescono nemmeno ad immaginare, nonostante la giornata inizi sottotono, magari avvolta in dubbiose nebbie che rilasciano quel giusto tasso di umidità che minano l’entusiasmo con cui ti sei alzato dal letto con ancora con il gusto del vino rosso della serata appena trascorsa; e ti chiedi se non facevi meglio a rimanertene sotto il caldo delle coperte.


Alla mattina il sole non vuol saperne di riscaldare l’aria e spazzare vie le nebbie. Il giovane Carlo decide che è ora di scacciare l’inverno dalle sue ossa mettendosi a giocare con le rocce.
Il posto è quello di sempre… è lo stesso che l’ha imprigionato la prima volta che ha messo l’imbraco.
Questione d’imprinting… forse.

Ad un tratto tutto cambia, il sole prepotente dissolve nebbie e dubbi, la roccia si scalda e si alza anche una leggera brezza a togliere un poco di umidità dall’aria. L’hai tentata solo una volta ma non ti è riuscita a vista, diciamo che l’hai provata, che hai fatto un giro come dicono quelli forti, quelli che si tengono, quelli che…


Li c’è quella via… quei pochi metri che farebbero persino pensare che chiamarla via sia una bestemmia per gli alpinisti. Eppure il Carlo su quelle rocce, oggi, ha deciso di giocare la sua partita. Non ci sono arbitri e non ci sono tifosi. C’è solo la voglia di salire quei maledetti metri che già una volta l’avevano respinto. Il bello dell’arrampicata libera. La dura lotta con l’alpe negli anni passati mandò su per le pareti tanti giovanotti in cerca di un po’ di gloria ma al Carlo di queste cose qua non gliene frega proprio un cazzo.
Per lui c’è solo la libertà. La voglia di muoversi liberamente su quelle ruvide rocce.

La lista delle scuse per non provarla sarebbe infinta, seconda uscita dell’anno, scarso allenamento, l’umido, le scarpette rigide, le mani fredde, la luna, le stelle, Giove e Saturno contro. Ma se l’arrampicata un gioco di equilibri tra la terra e il cielo, come ha detto uno sfigato che scrivere relazioni nel web; allora io voglio giocare ma soprattutto mettermi in gioco e se si perde un poco chi se ne fotte. Sistemo i rinvii, pulisco le scarpe, respiro a fondo a occhi chiusi e parto. I primi metri sono facili, alzo la mano la infilo in un bel buco pieno d’acqua e fango e moschettono, accoppio dentro il buco e mi alzo ancora di qualche metro con le mani imbrattate. Le asciugo bene e mi concentro, si parte, placca l’aderenza da interpretare stringo una tacca mi alzo e via, la parete diventa più verticale, prendo una fessura in dulfer un po’ atletica e approdo sotto il tetto. Ora arriva il chiave, penso; bloccaggio duro di destro alzo più che posso i piedi ed inizio a sbuffare; ora bisogna saltar su.
Dritto da dove sono è troppo duro in alto non ci son prese buone, intanto rimango li e le braccia iniziano a far male, guardo poco a sinistra ed una fessura orizzontale mi viene in aiuto, allungo di sinistro e riesco ad alzarmi ancora un poco fino a prendere una buona lama sopra il tetto . Ora, la tradizione letteraria vorrebbe che iniziasse un serrato dialogo interiore, che esprimesse note di incitazione e resistenze mentali al proseguire; in realtà in quel momento non accadeva niente di tutto ciò dentro la mia testa. Io non pensavo, il mondo per me si era totalmente fermato come i flussi di pensieri, proseguivo seguendo un istinto che mi suggeriva i movimenti da fare. Annusavo la roccia, sentivo il rumore dei rami mossi dal vento, gustavo il sapore della polvere di pietra euganea. La stanchezza sopraggiunge, assieme ad un grido che giunge dalla base della falesia, un – alé - di incitazione rompe il silenzio che c’era attorno e dentro di me. Stringo la lama e mi alzo oltre il tetto, respiro a fondo e mi impongo di rimanere concentrato mancano ancora 4 m alla sosta; so che è più facile ma non devo distrarmi. Traverso di un metro a destra prendo la fessura finale incastro mani e piedi, spingo e son fuori, un paio di metri facili mi portano sul terrazzino dove c’è la calata. Non avviene un esplosione violenta di gioia, ma un rilassamento mentale e fisico al quale mi abbandono senza pensare, quasi volessi
far continuare quella sensazione d’isolamento mentale che mi accompagnava durante la salita. Inizia la calata e con questa il ritorno alla realtà, son riuscito a salirla Flash come dicono i forti, pulita dico io.

La spensieratezza porta il Carlo abbastanza in fretta alla catena di sosta. Chi gli stava tenendo la corda dice persino che sembrava stesse danzando.

Qualche giorno addietro ho compiuto 28 anni e questo è il più bel regalo che potevo farmi, salire una via che guardavo con rispetto dai primi momenti che ho messo piede in quella falesia, che corrispondono anche alle mie prime esperienze in verticale. Buon Compleanno Carlo.

Il vento improvvisamente riprende il suo viaggio verso ovest e chi alla base della pare te ha assistito alla salita dice di averlo sentito pronunciare “Buon Compleanno”.
All’improvviso il sole inizia a baciare le fredde rocce e persino i rami degli alberi iniziano a danzare con il vento… quasi come se la primavera fosse arrivata in anticipo.
Il Carlo si è regalato una salita pulita. Il regalo più inutile dell’anno ma forse il più bello perché inaspettato.

Il regalo più bello perché il più inutile, come lo è la nostra attività, cosa c’è di più, energicamente dispendioso ed economicamente irrilevante che salire una parete rocciosa?!? Penso che stia qui il segreto della felicità che traggo quando scalo, ovvero di fare una cosa assolutamente inutile e quindi uscire, anche se per brevi momenti, dall’estenuante corsa alla produzione di attività, gesti e parole che facciamo ogni giorno, sperando di guadagnarci un pezzettino di immortalità.

domenica 21 febbraio 2010

ECCO FATTO!

LA PAROLA A PITERONE

dal film “Ecco fatto”

(per bocca degli sceneggiatori Nicola Alvau e Andrea Garello)

Gallina che non becca, ha già beccato, perché una gallina che non becca muore. Sta tutto qui il segreto per riconoscere se la tua donna ti cornifica oppure no. Voglio dire, se una volta lei non se la sente, amen; se la volta dopo non se la sente ancora, si rosica con classe, mantenendo la calma. Ma se ti manda a spasso per terza volta, allora c’è un problema, e per capirlo ci vuole un approccio scientifico.

Se lei sorride di meno, vuol dire che è ancora fedele, se invece è allegra e spensierata, la tromba un altro. Perché le donne se non trombano s’intristiscono, come me. E io credo nella parità uomo-donna. Sul lavoro. In amore l’uomo deve comandare e la donna obbedire in teoria. Se la teoria salta, in pratica sono guai. Proprio come quello che è successo a Matteo. E allora io gli ho detto: tranquillo, tienila d’occhio, ma senza dare nell’occhio. Ci sono tre modi per tenere sotto controllo la tua donna: quello giusto, quello sbagliato e quello mio. Volete sapere com’è quello mio? Bastone e carota. Un giorno l’allisci, il giorno dopo la lessi. Così la fai star sempre sulle braci come un allenatore con la panchina bollente. Matteo sta cosa non l’ha capita, risultato: ha fatto un botto così grosso che ci hanno fatto un film. Chi lo vede poi sa come regolarsi. Perché in amore c’è un solo modo per vincere, il problema è che adesso non mi ricordo qual è.



martedì 16 febbraio 2010

THE OLD MAN AND THE SEA

"Everything about him was old except his eyes
and they were the same colour as the sea and
were cheerful and undefeated",
"The wild goeth toward the south
and turneth about unto the north;
it whirleth about continually,
and the wind returneth again
according to his circuits..."

Frase decisamente poetica rubata ad una tovaglietta in un ristorante in Kenya... una delle più belle cene fatte con un'atmosfera decisamente unica!


Provate per credere... il biglietto aereo se comprato per tempo non costa molto :-)


sabato 13 febbraio 2010

DIALOGO TRA UN ALPINISTA ED UN ESCURSIONISTA CON GLI ZOCCOLI AI PIEDI IN VAL CALOLDEN

Stamattina ho trovato in un vecchio libro usato comprato ieri questo scritto. Mi sono divertito parecchio al punto che ho deciso di riscriverlo e metterlo su face! Il titolo non è quello originale... ma questo mi piaceva di più!

di Andrea Oggioni

Dopo i contatti amichevoli con i più grandi rappresentanti dell’alpinismo francese e le salite classiche effettuate, anche il mio nome era praticamente entrato in circolazione nella famiglia degli alpinisti di primo piano. Lo capivo da tante piccole cose, alle volte da episodi divertenti, come quello che mi accadde in Grignetta.
Un sabato pomeriggio, salivo dunque per la Val Calolden ai Piani dei Resinelli e, dato che mi facevano terribilmente male i piedi, avevo calzato un paio di zoccoletti, ma naturalmente non abituato ad andare in montagna con gli zoccoli, camminavo a fatica, sostando a più riprese.
In una di queste soste, venni raggiunto da due individui vestiti da veri alpinisti: zaino affardellato, cappello d’alpino sulla testa e numerosi medaglioni e patacche sui pantaloni e sulla camicia. Si fermarono anch’essi e subito uno di loro mi assale:
- Dov’è diretto?
- Ai Resinelli, - rispondo.
- Non ha le scarpe.
- Le ho nel sacco.
- Allora perché sale con gli zoccoli?
- Perché mi fanno male i piedi.
Non so se sia il mio abbigliamento; a torso nudo in pantaloncini corti, o per la mia faccia… ché il mio interrogatore, sempre più curioso, continua a farmi domande.
- Di dov’è?
- Di Monza.
- Di Monza!... Allora conosce Bonatti… Oggioni… Aiazzi…
- Per sentito dire.
- Ho arrampicato con loro. Ho fatto parecchie salite. Sono di Milano. Lei arrampica?
Ora sono io che rimango molto sorpreso ed incuriosito; quel tipo che dice di aver arrampicato con me incomincia a divertirmi, perciò rispondo sempre alle sue domande.
- Mai arrampicato… Mi piacerebbe.
- Bene, scusami se ti do del tu, domani se alle dieci ti trovi sul prato del Nibbio, ti faccio fare lo spigolo.
- … ce la farò?
Mi guarda nuovamente come se cercasse delle doti di arrampicatore dentro di me, e mi dice;
- Con me puoi star sicuro.
Accetto l’appuntamento e riprendiamo la mulattiera che porta ai Piani dei Resinelli. Sono soddisfatto di essere conosciuto e quel tipo che conosce molto bene il mio nome mi è entrato in simpatia; perciò mi azzardo ad interrogarlo, vorrei chiedergli qualche cosa sul mio conto.
- Mi dica, lei che conosce Oggioni, com’è?
- Stilista perfetto, forte, un po’ ignorante, ma un buon ragazzo.
- E che salite ha fatto con Oggioni?
- Parecchie ascensioni in Grignetta: anzi sono stato io il primo ad insegnargli qualche cosa sulla roccia.
Pensai subito a Luigi, il mio primo compagno di cordata: anche lui era alto e magro come questo, ma possibile che non lo riconosca? O almeno lui, che mi conosce di nome, non mi riconosca di persona? Non è Luigi. E se davvero fosse? Non può essere, Luigi mi disse che era di Sesto, questo è di Milano, e poi si chiama Luigi? Mi affretto a chiederglielo.
- Scusi, si chiama Luigi?
- No, mi chiamo Romano, perché?
- Niente… mi sembrava di averla già visto.
Ai Resinelli ci salutiamo dandoci appuntamento per l’indomani al Corno del Nibbio.
Più tardi trovo l’amico Maggioni: lo metto al corrente di ciò che mi è capitato: perciò devo anticipare il programma che ho con lui il giorno seguente: salire una via di sesto grado al Nibbio. Dobbiamo farlo prima delle dieci perché a quell’ora arriverà Romano per portarmi sul facile spigolo.
Infatti così avviene: alle nove sono sulla parete del Nibbio, e mentre sono impegnato nel ‘tira e molla’ della via Campioni d’Italia, sento dal basso una nota voce che chiede ad uno ‘spettatore’:
- Ma chi è il primo di quella cordata?
- Oggioni, - risponde l’interrogato.
Guardo giù e vedo Romano, che arrivato molto in anticipo all’appuntamento, sgranando tanto d’occhi, mi fissa impallidendo più del normale e quindi con un gesto di sdegno se ne va a capo chino.
Naturalmente si è offeso: credo di averlo trattato proprio male; avrei voluto, se fosse possibile, chiedergli scusa, ma se ne stava andando troppo di fretta.

martedì 2 febbraio 2010

IL DANIEL

A dir la verità non ricordo quando ci siamo incontrati la prima volta.
Di certo davanti ad una birra. Di certo non sono capace di dire quando.
Ricordo che erano tempi in cui guardavo le foto del Daniel con un certo interesse.
Questo ragazzo trasportato dalla Bora di Trieste sino ad atterrare tra le colline bergamasche e l'aria del lago di Lecco aveva saputo catturare il mio interesse.
Definirlo "ribelle" è sbagliato. Forse "originale" è più corretto. Di certo meglio appiccicargli sulla schiena l'aggettivo "controcorrente".
Ogni mattina per il Daniel era buona per dar vita a qualche nuova avventura. Con i turni che faceva aveva a disposizione un sacco di possibilità. E' utile chiamarle "possibilità" e non "tempo libero" perchè spesso dopo le sue uscite in montagna aveva da scontare la sua dose quotidiana di lavoro.
Non si è mai definito un classico, ma ha certamente curiosato al di là di quella porta che divide l'alpinismo da dura lotta con l'alpe da quella che un tempo era l'arrampicata libera e che ora porta l'aggettivo di sportiva.
Lui è uno così. In base a come dormiva riempiva lo zaino con un po' di cianfrusaglie e partiva. Che si trattasse di una camminata solitaria o un'arrampicata su qualche parete assolata aveva poca importanza.
Quella sera, davanti a quella birra, abbiamo iniziato un'amicizia anomala. Forse più che amicizia dovrei chiamarlo "un cammino parallelo". Entrambi ci siamo guardati e entrambi ci siamo apprezzati per ciò che combinavamo. Una volta abbiamo arrampicato insieme. Solo una. Chissà perchè abbiamo aspettato un bel pò prima di farla. Quel giorno abbiamo scelto una via molto facile. Forse perchè uno voleva conoscere di più l'altro prima di buttarsi su progetti "too hard" ma entrambi sapevamo, ne sono sicuro, che quel giorno delle difficoltà non ce ne fregava proprio un cazzo.
Eravamo li, sotto il sole cuocente della Grigna, a fare qualche passo d'arrampicata.
La via è finita alla svelta o meglio sarebbe dire che alla svelta abbiamo voluto finire davanti ad una birra.
A Daniel quel giorno restò attaccato il libro "Calcare d'Autore" che il forno nella Grigna cercava di promuovere a più non posso.
Daniel sfogliò alla svelta le pagine che ancora odoravano di tipografia. La pagina che presentava l'eleganza del camino Cassin al Pizzo d'Eghen l'aveva catturato e subito mi aveva proposto la ripetizione.
Durante il carnevale seguente il destino giocò un brutto scherzo all'amico che lo pose nella condizione di prendersi un po' di riposo forzato. All'inizio un anno, poi due.
La sorte gli aveva comunicato di essere ufficialmente una grande Troia.
Tutto fu nel giro di poco stravolto. Tutto. Niente si era salvato.
Il Daniel ha tirato fuori il meglio di se e ha sedotto il destino inventandosi nuovamente.
Sono arrivati nuovi usi, nuove passioni, una donna alla quale ha saputo mettere un anello al dito. Intanto però sul calendario c'era la spunta dei giorni. Il count down procedeva.
Ora il tempo è scaduto.
I suoi polpastrelli non vedranno più le rocce unte del Medale. I suoi capelli biondi non verranno più spazzati via dal vento gelido sulla vetta della Grignetta dopo una spicozzata invernale sulla Segantini. Le sue viti da ghiacchio non scivoleranno dentro vertiginose e fredde cascate.
Tutto ha un inizio e tutto ha una fine. La montagna per lui ora è una cartolina piena di ricordi attaccata ad una parete.
Non se lo meritava ma il destino ha giocato la sua partita. Lui ha combattuto sino all'ultimo e non ha mai smesso di sperare. Prima che partissi per il Kenya aveva una grinta in corpo.
Ora il Daniel è in un bicchiere d'acqua ma sono certo che si metterà a nuotare sino a raggiungere il bordo.
E... dopo... scoprirà che nuove avventure gli cadranno davanti... e... sono certo che le affronterà con lo stesso timore e rispetto con cui ci siamo guardati in faccia tanti anni fa davanti alla prima birra che abbiamo bevuto insieme.

martedì 26 gennaio 2010

IL CHIODO DELL'AMORE NON MOLLA MAI

Da quando sono tornato dal Kenya avrei diverse cose da scrivere ma il tempo mi è abbastanza tiranno. In questi giorni mi è stata regalata una vecchia edizione di un libro che ho letto due anni fa e che racconta la biografia di un grande alpinista di nome Angelo Ursella.
Questa edizione ha in più degli scritti di diversi amici di Ursella. Leggendoli ho trovato quello di un prete. Ve lo riporto perchè dalle parole scritte da Don Raffaello emergono dei valori insindacabili di amicizia che sono fondamentali nella mia visione dell'andare in Montagna, del legare una corda ad un'altra persona.

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IL CHIODO DELL’AMORE NON MOLLA MAI

di don Raffaello de Rocco

Il Tissi è anche un rifugio, è anche un ottimo ritrovo per allegre gite, ma è soprattutto una specola, un osservatorio.

Oltre a quelle del firmamento, dal Tissi, si possono vedere tante altre stelle di varia grandezza, che lambiscono il Civetta come satelliti.

E’ proprio da questa specola, ch’io scorsi Angelo, astro dell’Alpe. Così presto uscito dalla nostra galassia.

Aveva tentato un pezzo della “Su Alto” in quell’agosto ’68, solo per allenarsi, e mi colpì il suo disinvolto modo di discendere, libero, saltellando qua e là come un cerbiatto.

Lo attesi alla base, e là nacque la nostra amicizia.

Era sbrindellato (la dolomite a volte taglia gli abiti come il rasoio), capelli fulvi, arruffati, sguardo assente verso l’immane parete.

Iniziò così uno scambio di cartoline, era ghiotto di panorami dolomitici. Poi lo andai a trovare a Buia e conobbi la sua famiglia.

Semplice gente friulana, cresciuta al dovere ed alla fatica, ricca di Fede e di buona volontà.

Poche le loro parole ma di una delicata ospitalità. L’essenziale per l’uomo. Una mattina trepidante per tutte le assenze di Angelo, quasi presaga di quello che sarebbe più tardi successo.

Per questo, Angelo, che aveva per la famiglia un affetto reverenziale, doveva preparare ogni volta in segreto il suo bazar di articoli d’arrampicata. Ogni suo viaggio incontro alle Dolomiti, era una fuga, una mossa tattica per passare inosservato, come se si fosse trattato di andare al bar un attimo con gli amici, per poi rientrare.

Ed erano fatiche enormi, le sue.

Smettere il lavoro al sabato e mezzodì a Monfalcone, correre a Buia, inforcare la vespa, essere a notte nelle Dolomiti per un breve riposo, arrampicare la domenica e rientrare in serata, tardi, per un’altra lunga settimana di fatica.

Un ritmo sostenuto per mesi e mesi, con qualsiasi tempo, con qualsiasi strada, anche innevata, perché già a marzo lui sentiva il richiamo delle Dolomiti, e le sue fibre percepivano precocemente la primavera.

Ci rivedemmo nell’estate ’69, in Lavaredo per caso, in Civetta per appuntamento quando con Paolo Bizzarro per la Carlesso sulla torre di Valgrande.

Occasioni, queste, che rassodarono la nostra amicizia, con lui e col suo fratello Silvio.

Nonostante le poche parole, tutte sobrie, che lui pronunciava, non era difficile scoprire in lui un anelito che la pianura friulana non poteva saziare. Un ideale al quale tendeva con costanza, donando il meglio di se stesso, non per la pubblicità (il suo infatti, allora, era un nome sconosciuto nel campo dell’alpinismo) ma per un bisogno di vincere, di superare, di superarsi. E non c’era ostacolo che gli chiudesse il cammino, basterà sfogliare questo libro (il ragazzo di Buia n.d.r.) per averne conferma.

Nel tardo autunno ’69, passò per Forno di Zoldo – lo seppi dopo da lui – era diretto all’Agnér, fece in solitaria la via Jori in ore 6. Ripassò per Zoldo al ritorno, e giunto a casa sua, si scusa di essere passato senza salutarmi. C’è qui una sua lettera del 5 novembre, una reliquia, ove narra tutta l’avventura sull’Agnér, e il lungo ritorno a notte alta per Duran-Zoldo-Valcellina, e conclude “come vede, non ho potuto fermarmi neanche per bere una birra per la fretta, e soprattutto per non tenere in pensiero i miei. Ma quando verrò a trovarla, verrò da turista, senza fretta. A presto…”.

Ed ecco che riaffiora ancora il suo animo: l’amicizia e la famiglia, due cose che lui non disgiungeva mai dalla passione per l’alpe.

Nel suo lavoro, la sua mente tesseva i piani più reconditi, per cooperare col fratello a migliorare la vita in famiglia, per incontrare spesso gli amici, per sentire, pure spesso, le crode strette tra le sue mani.

Mi diceva un giorno. “Le mie domeniche sono tutte così, viaggio e scalate, rubo anche il tempo alla messa, e la mamma ne soffre, ma Dio conosce il mo animo e son certo che è dalla parte mia”.

Non era la sua una ricerca di giustificazione, avrebbe voluto poter arrivare ovunque, ma questo non era possibile. O approfittare dei brevi spazi di tempo liberi da impegni, o sacrificare la festa restando in paese, nelle osterie, il che si sarebbe tradotto in sofferenza per lui, cuore silenzioso e grande, che cercava solo il silenzio e la maestà dei monti.

Ogni simile ama il suo simile.

Poi uno scambio di auguri a Pasqua nel ’70, quindi a maggio mi tenne per alcuni giorni l’ospedale di Feltre per un intervento, e fù là che una sera, tardi, me lo vidi arrivare in stanza. Veniva dal Rolle, non aveva scalato quel giorno, ma forse da quelle parti una ragazza aveva acceso per lui una fiamma. Parlammo di crode, di progetti per l’estate incipiente, e con un guizzo negli occhi accennò all’Eiger.

Ci salutammo contenti. E fu l’ultima volta.

Verso metà luglio, come d’accordo, lo attesi in Lavaredo, ma non lo trovai. Altri giorni attesi sue notizie, ma invano. Scadeva il 18 il suo compleanno e gli feci pervenire per posta, come strenna, il libro delle alpi. Uqel libro non lo vide, era partito per la Svizzera.

Attesi una settimana sue notizie, era quello il etmpo migliore anche per me per avvicinarmi ai monti, e per seguire con l’occhio le sue ascensioni. Poi, una lettera listata a lutto, vie da Buia. Mi colpisce il colore… penso alla mamma di Angelo, al padre, a tutti, meno che a lui.

E’ Auro che scrive, il fratello: “Don Raffaello, il nostro Angelo non c’è più… questo è il frontespizio della missiva, che continua: per noi sarà un grande conforto vederla e poter parlare del nostro Angelo…”

Da giorni non seguivo la stampa. L’avessi fatto, sarei almeno arrivato in tempo per l’ultimo saluto. Ero insomma all’oscuro di tutto, e Lui giaceva ormai a Buia, sotto una lastra di marmo, porgendo agli amici un chiodo ed un moschettone per invitarci a non desistere, a salire ancora.

Nobile creatura, quante lacrime ci è costato il commiato! Quanta tristezza ho trovato poi, nella tua casa, orbata del tuo sorriso, dei tuoi capelli arruffati, dei tuoi piccoli sotterfugi per sgusciare via, verso i monti.

Parlavi poco, ma eri la vita per i tuoi. Quanto a me, la tua mancanza mi ha impoverito. Ti cerco ancora al Tissi, parlo di Te, col Livio, con la sua sposa, vedo gli occhi di lei bagnarsi di lacrime.

Noi uomini facciamo i forti, non ci facciamo vedere a piangere, ma sentiamo che il cuore perde battiti al tuo ricordo. Preferisco guardare verso la Valgrande, verso la Carlesso, e cercarti, nell’Infinito, ove so che ti rivedrò. E a questo vecchio amico tu porgerai la corda di sicurezza e mi aiuterai per l’ultimo ‘sesto grado’, dopo il quale non ci saranno più né separazioni né lacrime, ma vita piena, di tutti noi amici, nell’oceano infinito di quell’Amore che nel Civetta e nell’Eiger pose solo un saggio della sua Forza e della sua Bellezza.

venerdì 8 gennaio 2010

KENYA

Buongiorno Mondo,
l'anno vecchio e' finito ormai... ma qualcosa ancora qui non va!
Lucio Dalla aveva davanti a se la mia sfera di cristallo quando ha composto questa canzone.
Siamo in Kenya dal giorno di Natale ma qui le cose non sono andate proprio alla grande. Quella che dovrebbe essere la stagione secca in realta' non lo e'. Tutti i giorni piove alla grande. Pioggia che ha portato morte e distruzione.
Piogge che non hanno regalato tranquillita' a noi poveri arrancatori della domenica venuti sin qua per tentare i 5000 metri e passa del monte Kenya (non raggiunto sia per meteo infame che per problemi di quota) che per i Kenyoti che stanno veramente in una situazione allarmante di nubifragio.
Mentre salivamo al nord al lago Baringo siamo dovuti rimanere fermi un giorno e mezzo per un rigagnolo in piena che aveva, poco prima del nostro arrivo, trascinato via due persone. Poco oltre un bus di 54 persone e' stato letterarlmente portato via dall'acqua e ritrovato kilometri dopo nella rift valley.
La notizia della morte di due persone mi ha lasciato letteralmente basito. Mike, la nostra guida mi ha riferito della vicenda con molta leggerezza ridendo per la situazione comica con cui sono stati trasciati via. Nessuno dei numerosi presenti sapeva nulla di loro, ne i nomi ne da dove venissero pero' tutti hanno dichiarato ridendo che erano diventati la cena di diversi coccodrilli.
In Italia cio' non sareebbe successo. Si sarebbe attivato un processo mediatico insopportabile. Ora noi viviamo in un eccesso... loro in un altro!
Dopo essere stati in giro tra parchi nazionali a farci derubare da un governo (l'ingresso ad un parco nazionale costa 70 euro al giorno!), che dopo l'elezione di Obama, pensava che gli americani avrebbero fatto del loro stato una sorta di luogo di pellegrinaggio (ma cosi' non e' stato) andremo a Monbasa. Qui probabilmente stareno appoggiati a casa di Francesco, un ragazzo italiano che dopo aver trascorso qualche anno in una missione italiana ha deciso di stabilirsi qui ed aprire una ditta d'installazione di pannelli solari. Con Francesco abbiamo salutato il vecchio anno e inaugurato quello nuovo e sono sicuro che ci aspettano giorni di divertimento.
Giusto per chiudere questo capitolo della mia vita e rientrare a lavorare!
Jambo,
Matteo