venerdì 30 marzo 2018

ANGELO URSELLA


Nell’estate 2012 incontro, al termine di una conferenza, Sergio De Infanti (che con Angelo Ursella stava tentando la parete N dell’Eiger) e privatamente gli chiedo di raccontarmi qualcosa su Ursella che non avrei mai trovato in un
libro. De Infanti borbottò qualcosa di poco comprensibile e poi esclamò: Mi manca da morire!

Ursella aveva compiuto numerose salite solitarie per via del fatto che non riusciva a trovare compagni di cordata. Pubblicò persino un articolo sulla Rivista del CAI nel quale cercava soci. Arrampicò diverse volte con Samuele Scalet. Molto belle sono le parole che Ursella spende nel suo diario per descrivere l’amico.

Nella notte fra il 16 e il 17 luglio ’70, ferito gravemente dopo un volo di 30 m, dovuto al cedimento del terrazzino e dei chiodi di auto-assicurazione, moriva sulla parete N dell’Eiger, tra l’infuriare di una tremenda bufera, Angelo Ursella, una delle più fulgide speranze del nostro alpinismo.
Era a trenta metri dal nevaio sommitale: a questo punto era giunto dopo due soli giorni di arrampicata effettiva!
La sua attività, qualitativamente, era stata eccezionale.
Dopo breve tirocinio nelle palestre, inizia nella primavera del ’67 con la solitaria della Cassin alla Piccolissima di Lavaredo. Durante la discesa a corda doppia, lungo la stessa via, il primo incidente: un sasso lo colpisce alla testa ed egli arriva esausto e sanguinante al rifugio Auronzo; salvo per miracolo!
Uscito dall’ospedale, ricomincia con accanimento l’allenamento e, dopo la Preuss alla Piccolissima, sale a ferragosto lo Spigolo Giallo.
Nel ’68 a Pasqua, inizia con la Myriam e la diretta Franceschi alle Cinque Torri. In giugno sale e scende da solo lungo la Cassin alla Piccolissima ed effettua quindi la prima solitaria dello Spigolo degli Scoiattoli alla Ovest di Lavaredo, con un bivacco nella bufera, e riportando congelamenti di secondo grado alle mani. In luglio, con le mani ancora piagate, rifà li Spigolo Giallo. Poi è la volta della Hasse-Brandler alla Nord della Grande di Lavaredo. Segue la prima solitaria (e 3a. ascensione) della direttissima alla Punta Giovannina nelle Tofane per la via Ivano Dibona, in 5 ore.
Il ’69 inizia con la solitaria alla Myriam (Cinque Torri) e alla Maestri-Baldessari alla Roda di Vael, in 7 ore. Sempre da solo sale lo Spigolo N dell’Agner, pure in 7 ore.
Ecco poi il suo esordio nelle Occidentali: sale la via Cassin alla Punta Walker delle Grandes Jorasses.
A ferragosto sale la via Carlesso alla Torre di Valgrande, in Civetta, e nel ritorno un banale incidente sul sentiero gli procura una distorsione al ginocchio e un mese di penosa inattività.
Riprende con la Comici al Campanile II di Popera, con lo spigolo Demuth alla Cima Ovest di Lavaredo e con la S della Tofana di Rozes (via della Julia) ove traccia una più diretta e difficile variante. Conclude la stagione salendo da solo i 1600 m della N dell’Agner (via Iori) nello sbalorditivo tempo di 5 ore effettive.
La sua tecnica, in continua evoluzione, sta ormai per raggiungere la perfezione e così anche i tempi di arrampicata si riducono notevolmente.
Nel dicembre del ’69 esordisce nel meraviglioso e sbalorditivo regno delle invernali. Effettua due prime invernali sul Bila Pec (Alpi Carniche). Nella prima (un V grado), è costretto a un bivacco sulla cima, in mezzo alla bufera e nella seconda (una via in arrampicata artificiale) un chiodo che si sfila lo costringe a un volo fuori programma.
Nell’aprile ’70 è respinto, in un tentativo di vie nuove, dalla Terza Pala di S. Lucano. Dopo esser salito 900 m, a 400 m dalla cima placche lisce lo costringono alla ritirata: indispensabile la chiodatura a pressione: ma a questo patto preferisce rinunciare. Per ora non ne vuol sapere di chiodi a pressione. Li userà, forse, quando avrà fatto tutto ciò che è umanamente fattibile con i mezzi tradizionali.
Non si sentiva degno di usarli perché – diceva – prima uno deve fare tutto ciò che è possibile in arrampicata tradizionale. Ma, conoscendo la sua coerenza e la severità di giudizio nei suoi confronti, c’è veramente da credere che mai li avrebbe usati.
A fine maggio apre nelle Alpi Carniche tre nuove vie estreme; poi inizia la preparazione per l’Eiger, preparazione che si concretizza con sei vie nuove; con la Costantini alla parete del Pilastro di Rozes e con una nuova, meravigliosa via al Dain (Brenta).
Poi… l’Eiger!
Era nato a Buia, in provincia di Udine, 23 anni fa.
Dalla fine del ’69 apparteneva al Gruppo Alta Montagna della Sezione CAI-UGET di Torino. All’inizio del ’70 ritirava a Roma un premio di L. 100.000 vinto per essersi classificato nei primi posti a un concorso fra lavoratori-alpinisti. Ricevuto dal Papa, gli prometteva di fare al più presto… la Paolo VI al Pilastro di Rozes: ma non potrà mantenere la promessa!
Stava per arruolarsi come finanziere nella Scuola Alpina di Predazzo: voleva donare tutto se stesso alla montagna e, con i mezzi e il tempo che avrebbe avuto a disposizione, sarebbe definitivamente esploso.
Era forte, buono, sano, amico, umile. Ecco: umile.
E’ la dote che in lui più rifulgeva. Una umiltà non voluta e faticosamente imposta, bensì spontanea, naturale. Avrebbe ben avuto il diritto di sentirsi fiero delle sue imprese e invece non si considerava nemmeno un alpinista.
Mi considererò tale, diceva, solo dopo aver aperto vie nuove di sesto grado. E queste vie le aveva aperte, ma continuava a dire, alludendo alla Preuss alla Piccolissima, che dobbiamo sentirci tutti piccoli, piccoli così.
Pur non avendo conosciuto l’odio, la meschinità e la polemica, non riusciva proprio a comprendere come molti denigrassero e sottovalutassero le vie classiche.
Una volta divenne letteralmente furioso, quando qualcuno gli disse che il passaggio finale della via normale alla Piccola di Lavaredo era di una facilità irrisoria.
Lui lo considerava un buon passaggio di IV e, osservando gli appigli unti e ‘consumati’, non si può certo dargli torto e affermare che qualcuno non ci sia scorticato le unghie. Lui, che saliva in arrampicata solitaria le pareti più vertiginose e superava gli strapiombi più pazzeschi, s’indignava per così poco!
Ma se era poco in linea pratica, era molto in linea di principio.
Questo era Angelo Ursella!
E così lo ricorderanno tutti coloro che hanno avuto l’onore di conoscerlo e di legarsi alla sua corda, che saliva gioiosa e veloce verso la felicità e le bellezze delle cime; cime sulle quali solamente Angelo si realizzava compiutamente.

MARY VARALE

Quante volte, durante la ricerca della via da ripetere nel fine settimana, è comparso il nome di Mary Varale? Quante volte il suo nome è a fianco di personaggi di altissimo livello come Cassin, Comici, Andrich?
Eppure in pochi sanno che Mary Gennaro Varale aprì nel 1934, con Andrich e Bianchet, una via di sesto grado sul Cimon della Pala (Pale di San Martino). Un’impresa di assoluto rilievo che però venne in toto snobbata dal CAI che quell’anno decise di assegnare la medaglia d’oro a Chabod. Era evidente che il CAI non volle premiare l’impresa per via del fatto che era stata compiuta con una donna.
Visto il diniego, la battagliera Mary rivolge al presidente della sua sezione, Francesco Terribile, queste coraggiose parole:

Milano, 20 luglio 1935
Caro Signor Terribile,
non si stupisca della lettera di dimissioni, anzi la prego di non insistere perché le ritiri ma di mandarmi subito il benestare che mi occorre per ragioni personali. Sono profondamente disgustata della persecuzione contro di me da quei buffoni della Sede Centrale che hanno negato la medaglia ad Alvise [Andrich, ndr]soltanto perché ha avuto la colpa di scegliere come compagna di cordata l’odiata signora Varale. Nelle proposte fatte nel mese di febbraio Alvise c’era; poi hanno fatto i giochi dei bussolotti per cacciarlo fuori e hanno scoperto la formula delle 3 salite ogni anno come ha dichiarato il generale Vaccaro a mio marito.
Il generale ha detto che la proposta di sole tre medaglie è proprio venuta da Manaresi e che tiene a sua disposizione il documento .L’ingiustizia dell’esclusione della punta Civetta e del Cimon de la Pala è troppo grossa e dimostra che c’è il partito preso per farci del male dopo aver sfruttato le nostre fatiche e il rischio della morte per prendere lui l’onorificenza al merito sportivo (Manaresi!) Nota: si fece conferire la medaglia! In questa compagnia di ipocriti e di buffoni io non posso più stare, mi dispiace forse di perdere compagnia dei cari compagni di Belluno, ma non farò più niente in montagna che possa rendere onore al Club Alpino dal quale mi allontano disgustata anche per un ‘altra ingiustizia commessa col rifiutarmi un articolo. Se le importa sapere e farlo sapere, le dico che Chabod davanti ai miei occhi è volato sul quarto grado in Grigna e l’altro ci ha messo venti minuti per fare un passaggio che noi passiamo in 30 secondi. Evviva le medaglie d’oro!
Mi saluti gli amici e abbia di me il buon ricordo che io ho dei bellunesi. Cordiali saluti a lei e alla sua signora.
Mary Varale

venerdì 23 marzo 2018

MISURE DIVERSE

La recente avventura di Matteo Della Bordella in Patagonia mi ha fatto tornare indietro nel tempo.
Ho riavvolto il nastro dei ricordi e portato alla luce una fotografia e un testo.
La fotografia a molti non dirà nulla. A me ricorda gli spazi ampi e infiniti di quella parte di mondo che molti conoscono solo per via di montagne ultra fotografate. Ma la Patagonia è tutt'altro, forse anche uno stile di vita.
Il testo invece è di Gino Buscaini e insegna a misurare il tempo con altre unità di misura.
Grazie Matteo per le emozioni che mi hai trasmesso con la vostra salita.E naturalmente, complimenti!


MISURE DIVERSEdi Gino Buscaini
La Patagonia è immensa.
Il suo spazio è infinito, un infinito che si misura con ore a piedi o a cavallo, scardinando dolcemente sotto le suole o sotto gli zoccoli, quasi senza avvertirlo, metri, tachimetri, orologi, abbandonandoli affogati nelle paludi e nei guadi.
Aste, molle, rottelline e chip, connessioni di un sistema che non serve, di disintegrano nell’immensità.
Lo spazio si misura con filari di pioppi, che con i loro tronchi rugosi stanno fermi tra i coltivi, le steppe e le piste sterrate; poi si misura con le impronte fugaci di cani, buoi, cavalli, carri e biciclette, di piedi scalzi di bambini. Tre piedi scalzi = due piedi calzati.
La velocità non ha nessuna importanza, quindi non esiste, nemmeno quella delle automobili. In Patagonia si può camminare in mezzo alla strada, dove c’è.
Quando arriva un’automobile, un turbine di polvere l’annuncia all’orizzonte, ma la sua velocità non ha importanza poiché quando passa di solito si ferma e qualcuno dice ‘qué tal?’, cioè domanda come va.
Allora si vede anche che l’automobile può essere senza targa. Se non si ferma, è solo un turbine che passa e non si vede niente.
La misura del tempo, tic tac tic tac, sono gli zoccoli svelti del cavallo che passa di primo mattino, sono grida di otarde e di galline, sono il viaggio diurno delle ombre e il viaggio delle stelle per chi si sveglia la notte.
Il tempo non scorre dal passato ma viene incontro dal futuro.
Viene incontro con il vento, pulsa con le turbolenze delle raffiche e con gli stacchi delle calme improvvise. Dipinge gli animi con nubi cariche di colori, dove i plumbei più foschi si alternano ai celesti più tenui, con nubi che mutevoli sfilacciano le loro forme, stemperano le tinte, portano ed esauriscono le tempeste.
Il vento è la misura della vita ed è onnipresente: avvolge di polvere e luce la cordigliera, la pampa e tutti gli altri cammini.

martedì 20 marzo 2018

MICHELE BETTEGA

Mi trovo, quasi per caso, il necrologio di Michele Bettega e ne resto colpito. Diverse le particolarità: dalla ‘spaventosa’ età della celebre guida al numero di volte che ha toccato la vetta del Cimon della Pala.
Ma la cosa che più spiace è che nel necrologio non si fa minimamente cenno al fatto che fu lui, con Bortolo Zagonel e Beatrice Tomasson a conquistare nel 1901 la parete sud della Marmolada.
Oltre al necrologio riporto la trascrizione e la traduzione del libretto guida di Bettega nonchè la fotografia del libretto e il martello di Zagonel utilizzato durante la celebre scalata. Il martello, che forse meriterebbe una teca in vetro al museo di Messner, riposa, per una serie di fortunate coincidente, nella piccola biblioteca di Will.

E’ morto Michele Bettega; la guida alpina che da vari anni s’era ritirato nella sua Fiera di Primiero dove viveva dei luminosi ricordi della sua carriera d’eccezione, tutta un susseguirsi di vertiginose scalate per vie inesplorate. Fra i suoi mondi, ch’egli amava francescanamente come un immenso tempio, il decano delle guide alpine ritrovava la dolcezza dell’estasi, nella contemplazione dell’orizzonte di vette, che fin da fanciullo aveva imparato a guardare con occhio di poeta e a venerare con purezza di asceta.
Michele Bettega, spentosi a 85 anni avendo conservata fino all’ultimo momento la più integra lucidità, era stato davvero una tempra d’eccezione. Nella sua lunga attività di guida alpina, giustamente celebre, egli aveva fatto ben 206 volte il Cimon della Pala, e per quasi 50 anni aveva scalato tutte le vette dolomitiche, spesso conquistandole per primo. La sua umiltà rude e bonaria gli aveva guadagnato l’amicizia di personalità illustri, che apprezzavano oltre alla sua rara abilità professionale, il suo mistico amore per la montagna.
Venti anni fa durante una drammatica scalata notturna, mentre guidava sulla parete del Colbricon Grande gli esploratori italiani del 58° Fanteria, il Bettega restava incrodato, sì da non poter procedere che con l’aiuto d’un riflettore che da lontano guidava gli ardimentosi. Per evitare i tiri nemici il riflettore dovette essere spento per oltre mezz’ora inchiodando nel buio il Bettega che si trovava in una posizione falsa coi nervi contorti in uno spasimo atroce, e che uscì dall’eroica avventura con una gamba inservibile.
Da allora la guida insuperabile dovette rinunciare alle audaci ascensioni sulle vette, alle quali ripensava con grande nostalgia. Il suo amore per la montagna, come per tutte le cose irrimediabilmente contese, s’ingigantì. Fu l’istruttore di tutte le guide di Fiera di Primiero. Un inglese lo chiamò in Inghilterra per istruirvi delle guide del luogo, ove rimase un anno. Re Alberto del Belgio lo volle sua guida per la Svizzera. Guido Rey lo ricorda in uno dei suoi libri glorificanti la montagna.

Una delle sue glorie maggiori era il ricordare che la SAT nacque quando egli era giù guida da dieci anni, e che la prima ascensione sociale fu guidata da lui, al Cimon dalla Pala, dal Ghiacciaio della Vezzana. Egli ripeté 22 volte quell’ascensione, che ben pochi hanno potuto compiere. Il Bettega conosceva tutte le imprese della patriottica Società, per averle vissute con cuore d’irredento e ha lasciato quattro libri di diari delle sue fatiche, di impressioni e di frasi di ammirativa riconoscenza da parte di numerose personalità, in dono alla SAT che giustamente ritenne quale migliore depositaria della sua eredità spirituale.
Martello di Bortolo Zagonel utilizzato nel 1901 per la scalata della parete Sud della Marmolada 

LIBRO GUIDA DI MICHELE BETTEGA
MARMOLADA – PARETE SUD
First ascent of the Marmolata by the South (rock) Wall. The ascent was made (with Bortolo Zagonel as 2nd guide) directly from Ombretta Pass, slightly to the east of the culmination of the Pass. The first two thirds of the way in my opinion is the most difficult that I had ever met in the Dolomites, requiring more strength, skill, endurance and courage than anything I know.
The remainder of the ascent would have been easier but for a storm of thunder, hail and snow, which made it more difficult and dangerous.
We were 12 hours on the rocks, descending by the Glacier to Fedaia, the last few hours were a test of endurance so we were all wet through on a high and very cold wind.
Bettega led for the first two thirds of the way and excelled even himself in every way, conquering apparently insuperable difficulties with this usual – unfailing -  courage and skill.

Beatrice Tomasson

“Prima ascensione della parete sud (di roccia) della Marmolada. La salita è stata compiuta (con Bortolo Zagonèl come seconda guida) direttamente dal Passo Ombretta, leggermente sulla destra rispetto alla sommità del passo. Secondo me i primi due terzi della salita sono il tratto più difficile che io abbia trovato in Dolomiti, in quanto richiedono più forza, abilità, costanza e coraggio di qualsiasi altra salita io conosca. Il resto dell’ascensione sarebbe stato più facile se non fosse scoppiata una bufera con fulmini, grandine e neve, che lo rese più difficile e pericoloso.
Rimanemmo 12 ore sulla roccia, discendendo per il ghiacciaio fino alla Fedaia; le ultime poche ore furono una vera prova di resistenza perché eravamo tutti fradici e schiaffeggiati da un vento forte e molto freddo.
Bettega stette in testa per due terzi della salita e fu veramente ottimo sotto ogni aspetto, perché seppe superare difficoltà apparentemente insormontabili con il solito immancabile coraggio e la sua abilità”.
Beatrice Tomasson
Michele Bettega


Libretto di Michele Bettega