Gli scalpellini
di Andrea Andreotti
É molto triste, per non dire doloroso, vedere bistrattato
l'alpinismo che si ama. Frasi come: “É una via da scalpellini”, “Roba da fabbri”.
“E una via di valore, se levi tutti i chiodi e li vendi…”. “E’ una ferrata, una
scala, una scalata pompieristica” sono ormai all'ordine del giorno nel mondo
alpinistico. Non sono certo frasi elogiative, né invitano ad andare a ripetere
quelle tali vie così drasticamente classificate.
Quelle frasi suonano come un anatema, come una scomunica
che pone fuori dall'alpinismo “vero” gli apritori di quelle vie ed ancor di più
coloro che vanno a ripeterle. Se infatti gli apritori sono degli scalpellini,
coloro che vanno a ripeterle sono quei famosi “buoni a nulla” che salgono con
le staffe persino sul III grado. Non solo. Gli apritori vengono chiamati
scalpellini quando va bene, quando non sono accusati di essere dei terribili “assassini”
che cinicamente “uccidono” l'alpinismo per il puro gusto di piantare chiodi
facendo magari una fatica cane. Per non parlare poi di quelli ignobili “rubaproblemi”
alle generazioni future, che sarebbero tutti coloro che aprono vie nuove usando
quegli orripilanti chiodi a pressione. Ignobili perché invece di salire certe
lavagne in arrampicata libera usano, poveretti!, i chiodi a pressione. Perché
invece di “tornare a casa ad allenarsi meglio” capiscono subito che di lì o “si
passa a pressione”, o non si passa.
“Meglio non passare” dicono i vecchi.
“Lasciamo il problema alle generazioni future” dicono i
giovani a cui fa “sfizio” toccare i chiodi a pressione.
Come se le generazioni future, per chi sa mai quale dono
divino, potessero riuscire a pussare senza chiodi od altri ausili tecnici, là
dove oggi sono necessari, dico necessari, i chiodi a pressione. E questi
accaniti fautori del classico bollano i loro fratelli alpinisti con il marchio
infamante (o che loro credono tale) di “scalpellini”, solo perché aprono vie
con molti chiodi o con chiodi a pressione.
Costoro forse non sanno che gli scalpellini, i fabbri, i
manovali, fanno il loro lavoro su ordinazione, per questo lavoro vengono pagati
e nell'eseguirlo non corrono alcun rischio, né dormono una notte, dico una,
fuori da un comodo Ietto. Proprio come coloro che aprono le tanto discusse “vie
ferrate”… Costoro al contrario sono degli artisti, scultori e poeti. Tra chi
apre una nuova via per un profondo bisogno interiore ed in essa cerca di trasfondere
tutta la sua forza, la sua morale, la sua concezione dell'alpinismo dando tutto
se stesso senza nulla ottenere; fra costui, dico, ed uno scalpellino vi è una
bella differenza. La stessa che vi è fra uno scalpellino ed uno scultore, fra
uno scribacchino ed un poeta, i quali pur facendo lo stesso lavoro manuale
producono cose completamente differenti: comuni e banali le une, ricche di un
profondo contenuto spirituale ed estetico te altre.
Solo quando si sentiranno dialoghi di questo tipo, si
potrà parlare di scalpellini:
— E’ lei...?
— In persona.
— Mi hanno detto che lei è il miglior chiodatore della
zona.
— E il meno caro.
— Mi servirebbe una via.
— A pressione?
— Naturalmente.
— Dove la vuole?
— Sulla parere sud del Pagaben.
— Benissimo. Di che lunghezza?
— 200 metri.
— Una o due cordate?
— Meglio una. E la spesa?
— Facciamo subito. Dunque, 200 metri a 500 lire il metro,
che è la tariffa minima, sono centomila lire. Poi ci sono i bivacchi.. tre
dovrebbero bastare. A diecimila lire l'uno sono trentamila lire. I chiodi sono
compresi nel prezzo. Ecco fatto. Con 130.000 lire, massimo 150 se ci sono
imprevisti, lei avrà la sua bella via.
— Perbacco, davvero poco!
— Modestamente… E come la vuol chiamare?
— Col mio nome, naturalmente.
— Benissimo. Per il pagamento metà subito, e metà ad
impresa compiuta.
Ecco. Quando gli alpinisti saranno ridotti a tal punto
avranno ragione coloro che spregevolmente li chiamano “scalpellini” e “fabbri”.
Ma fino a quando una nuova via nascerà come prepotente bisogno di un uomo che
cerca di esprimere se stesso, l'alpinismo vivrà. E chi oserà chiamare
scalpellini gli alpinisti rivelerà a tutti la sua meschinità. La meschinità di
chi non capisce la differenza che c'è fra un fabbro ed uno scultore, fra uno
scalpellino e Michelangelo.